di Giuseppe R. Panico
Chiudere una scuola è sempre un evento doloroso per l’intera comunità. Se poi la scuola è quella materna, dopo aver già chiuso quella media ed elementare, è come se fosse l’ultimo “ammaina bandiera” per poi staccare la spina. Senza nemmeno una scuola, senza attrattive di sorta, senza nuovi arrivi, se non qualche migrante da integrare e, soprattutto, senza nuove occasioni di lavoro, la comunità invecchia e si dissolve ancor più rapidamente.
Il paese diventa un mero quartiere dormitorio per gente sempre più rada ed anziana e cala anche la motivazione politica ed amministrativa per la gestione e manutenzione delle opere pubbliche. Il nostro PUG in itinere (o da storia infinita!) che si basa, o dovrebbe basarsi o avrebbe dovuto basarsi (da decenni!) non sulla bulimia da lottizzazione, ma sull’entità della popolazione e ben motivate prospettive di crescita, diventa così, in qualche frazione, una mera esigenza burocratica o una cura tardiva e palliativa.
I prezzi di case e terreni vanno ancora più giù e si diradano gli investimenti pubblici e privati. Succede anche altrove e sempre più frequentemente per il calo delle nascite che affligge l’Italia ma, nel nostro Meridione, anche per l’emigrazione giovanile e la perdurante inadeguatezza della politica. Inadeguata, se non per moltiplicare le nascite, per favorirle creando occasioni di onesto lavoro e sicurezza sociale.
Invece, l’Italia primeggia in Europa per evasione fiscale, la Puglia anche per illeciti o irregolari affitti estivi (ultima stagione) e primissima, dopo Sicilia e Campania, su ben 276 regioni europee, per i giovani senza lavoro e che restano a casa (36,4 %),
E a casa con mamma e papà, è ben difficile che pensino a diventare, a loro volta, mammà o papà. Siamo fra gli ultimi nell’ utilizzare proficuamente anche i fondi europei, troppo spesso diluiti o mal gestiti in progetti inutili o non necessari per evidenti interessi di parte. In tale contesto, la chiusura dell’ultima scuola non è solo un mero atto burocratico ma l’amara realtà di un declino sociale, politico ed economico e non solo scolastico.
E quando una nostra frazione ne è vittima, è l’intera Tricase che soffre (o dovrebbe soffrire) perché da tempo incapace di creare sviluppo e lavoro per sé e frazioni. Non solo per un Piano Coste troppo riduttivo/conservativo, né per un PUG che dopo due anni di riunioni ed elucubrazioni, è ancora in alto mare e dunque non in grado di attrarre investimenti almeno per il turismo.
Né per dare certezze, speranze o illusioni a chi possiede o vuole comprare una casa o un terreno. E così anche per lo sviluppo delle marine, forse unica residua risorsa (fino ad ora negatoci) per creare turismo, lavoro e progresso. Come altrove, la conseguente economia darebbe fiato anche alle frazioni con alberghi diffusi e centri storici da rendere più attrattivi. Purtroppo ora incide anche la perdurante incuria del territorio e di storici edifici.
Dal castello di Tutino alla torre di Palane, dai rottami dell’albergo Sauli, in capo al porto, alle “serre sfiorite” in zona Donna Maria, dalla casa nativa di G. Pisanelli alla torre del Sasso, dalle tante case “al grezzo” o inabitate/abbandonate alla carenza di parcheggi e marciapiedi (ma non per le auto come succede anche sul marciapiede del nuovo edificio in via Pirandello).
Il nostro non pare proprio un paese, né per pedoni né per ciclisti, né per giovani in cerca di lavoro, né per mamme con carrozzina e disabili in carrozzella. Si ciarla da decenni su una S.S. 275 a quattro corsie, chissà se con passaggio ad Est o ad Ovest, ma trascuriamo importanti strade turistiche, costruite dai nostri avi a due corsie ma da noi ridotte a… una corsia e mezza. Come quel tratto di litoranea che va dal santuario di Marina Serra all’incrocio del Rio.
Alto sul mare, panoramico e piano, con affaccio su una sottostante pineta, la valle e l’insenatura (con i reflui) del Rio. Già servito di illuminazione e fibra ottica, potrebbe essere, con più cura e poca spesa, l’elegante viale di collegamento fra le nostre due marine.
Ma privo di falci e cesoie in mani pubbliche o private, è ora, in gran parte, uno stretto e pericoloso nastro d’asfalto, invaso dagli incolti oleandri ( la stessa incuria si evidenzia da mesi anche l’antica rotonda di Tricase Porto). I nostri ragazzi se ne vanno, i figli li faranno altrove per poi indirizzarli verso altre scuole e mentalità.
I turisti stranieri (e non solo) invece arrivano, e non solo in estate. In tanti transitano in bicicletta su quel tratto di pericolosa litoranea, potenziali vittime della nostra incuria istituzionale e culturale. “Benvenuti nella natura protetta di Puglia” leggono increduli su vistosi cartelli.
A loro che arrivano, ai nostri ragazzi che partono ed ai ragazzini rimasti senza la loro scuola e poi senza futuro lavoro in loco, non ci resta che dire “Excuse me, ma nui simu fatti cusì”.
Meno male che in zona Rio hanno almeno cambiato i pali della luce, sorretti per anni dai fili e non viceversa. Chi ci dà la luce, aveva forse letto dei pali in un recente numero del Volantino.
di Alessandro Distante
“Cercare di intuire l’incanto di una piazza che riesce ad essere interclassista e borghese, politica e vacua, sportiva e festaiola, pettegola e sbruffona. Quella piazza che ancora resiste, non so ancora quanto”.
Era questa la promessa/premessa del libro di Alfredo De Giuseppe “Ore otto sotto l’orologio” scritto nel 2001.
Qualche settimana fa Alfredo, all’interno della rassegna cinematografica del SIFF, ha presentato un documentario (“Un giorno all’angolo”) su quella piazza o, meglio, su tutto ciò che gira intorno all’edicola di Gigi De Francesco, quella stessa edicola intorno alla quale nel 2001 aveva fermato la sua attenzione e le sua macchina fotografica.
Questa volta lo strumento per raccontare quell’angolo di vita tricasina, quel crocevia di persone e di vite, è stata una telecamera fissa, piazzata in incognito per 24 ore.
Una sorta di videosorveglianza, come egli stesso ha detto nel corso dell’incontro di presentazione.
Belle le immagini, soprattutto i primi piani: volti intrisi di vita e di storie, fisse in un mondo senza tempo. E poi il via vai di tante persone e, soprattutto, di tante autovetture, alcune delle quali ferme per lungo tempo in pieno divieto di sosta. In quell’incrocio della vita e delle vite tricasine, che, nel 2001, era il luogo dell’incontro, oggi, sotto l’orologio, tanta solitudine.
Una volta “Alle otto, caffè e giornale, commenti su tutto, grida e cattiverie, notizie sempre fresche. L’incontro è sotto l’orologio”.
Questo accadeva nel 2001, ed oggi? La chiusura del Bar Dell’Abate, posto dirimpetto all’edicola, ha svuotato quell’angolo, niente caffè e niente commenti. Alcuni volti tra quelli fotografati nel 2001 non ci sono più, portati via da un destino infausto; altri ci sono ancora ma non in Piazza ed altri ancora lì, con qualche anno di troppo.
Sulla panchina vicina all’edicola con alle spalle San Domenico oppure sulla soglia di ingresso di quello che fu il Bar, tante vite che svelano una ricchezza nascosta, volti spesso disincantati, espressione di una filosofia di vita apparentemente minore, dai quali traspare tanta poesia e al tempo stesso una tenera malinconia; tante persone a custodire un angolo cruciale della Città e che si alternano in questo compito, nelle varie ore del giorno, con la presenza fissa e rassicurante di Gigi.
Eppure al fondo una solitudine che, forse, non è conseguenza solo della chiusura del Bar all’angolo, ma del mettere all’angolo ogni forma di scambio fatto di pettegolezzo e di politica, di festa e di sbruffoneria, in uno smarrito interclassismo dove prevaleva il gusto dello stare insieme.
Un angolo nei pressi dell’orologio; un crocevia di vite che si incrociano ma che forse non si incontrano; la “Piazza che ancora resiste”, ancora esiste?,
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO BACCHETTA IL SINDACO, MENTRE
IL CONSIGLIERE PASQUALE DE MARCO RITORNA SUI SUOI PASSI
di Nunzio Dell'Abate
Dopo le roventi vicende dimissionarie che hanno visto protagoniste quest’estate le Consigliere Federica Esposito e Francesca Longo nonché l’Assessore Antonella Piccinni rispondere a tono,non c’è pace su a Palazzo Gallone.
Il Sindaco non risponde ad una interrogazione rivoltagli dal capogruppo PD in Consiglio Fernando Dell’Abate ed il Presidente del Consiglio protocolla una nota ricordando al Primo Cittadino la normativa del Regolamento Comunale sulle interrogazioni, l’unico mezzo messo a disposizione dei Consiglieri per esercitare la loro funzione di ispezione, di verifica e di sprone dell’azione politico-amministrativa.
Non è dato sapere se il Sindaco ha poi risposto.
Una cosa è certa, forse sfuggita al Presidente del Consiglio a cui le interrogazioni e le risposte giungono per conoscenza, che ben cinque interrogazioni a mia prima firma giacciono inevase dal lontano agosto dello scorso anno.
Intanto il Consigliere Pasquale De Marco, che aveva criticato aspramente urbi et orbi il Sindaco Chiuri (come ripreso anche dal Volantino in un precedente numero) e che al penultimo Consiglio Comunale non si era presentato facendo andare sotto la maggioranza, stante la concomitante assenza di altri due Consiglieri della stessa maggioranza, è ritornato amorevolmente alla corte di Chiuri.
Complice è stato l’ultimo Consiglio, ove si è rischiato che la maggioranza rimanesse di nuovo senza numero legale per deliberare autonomamente ed in palio c’era l’assestamento di bilancio.
Ad inizio di seduta, Consigliere e Sindaco si sono completamente ignorati, poi quando il secondo ha compreso il rischio che si stava correndo, attesa nuovamente l’assenza di due della maggioranza, è iniziato l’approccio di amorevoli sensi. Sfugge quale sia stata l’argomentazione che abbia convinto De Marco a rientrare nei ranghi.
All’attento Lettore non sfuggirà, invece, il clima in cui si lavora in Municipio e lo stato di motivazione dei funzionari e del personale dipendente, con le Commissioni Consiliari che frequentemente saltano per l’assenza dei consiglieri di maggioranza, con la mancanza della benchè minima programmazione ed idea di sviluppo della Città, con una costante navigazione a vista sui problemi ed esigenze della comunità e con un Sindaco che appare sempre più distante dalla gente ed avaro di confronto. Ma al peggio non c’è mai fine…
Radio Waves Tricase, La nuova Web Radio Tv del Salento
Nasce il 21 di maggio del 2018 da un’idea dell’editore Carlo Aprile che dopo 30 anni di radio ha deciso di abbattere le barriere tra radio e ascoltatori creando uno studio radiofonico di 120 mq dando la possibilità a chiunque di poter accedere in radio e partecipare a qualsivoglia trasmissione diventando parte integrante del programma.
Radio Waves può ospitare fino a 60 persone che possono assistere e partecipare ai vari programmi del palinsesto dalla mattina alla tarda serata inoltre dà la possibilità a chiunque di poter andare in onda sia audio che video come giovani artisti gruppi musicali o dj per potersi promuovere sul territorio.
Una Web Radio Tv aperta a qualsiasi argomento e iniziativa.
La trovate in piazza Castello dei Trane e su www.radiowavestricase.it
o scaricando l’app gratuita: Radio Waves Tricase
La mia colonna
di Alfredo De Giuseppe
Ha fatto scalpore in questi ultimi giorni l’arresto prima a Lecce di 7 persone e poi a Roma di altre 6, oltre a decine di avvisi di garanzia, per l’irregolare assegnazione di case popolari.
A Lecce sono coinvolti ex-assessori, funzionari, consiglieri comunali e vari. Pare che tutte queste persone brigassero in qualche modo affinché gli alloggi venissero attribuiti non in base a punteggi acquisisti ma secondo convenienza politica (scambio di voti) o per favorire semplicemente l’amico/familiare/amante/ che risultava vicino al potente del momento.
Al di là dei fatti di cronaca, ho tentato di capire meglio come funziona l’assegnazione di un alloggio popolare. Sono rimasto meravigliato della differenza di punteggi, regolamenti e tempi di assegnazione fra le varie regioni, addirittura fra i Comuni che in effetti hanno 8.000 regolamenti e canoni differenti (si va dai 12 € mensili di Pescara ai 300 di Milano).
In alcuni casi è necessaria la residenza prolungata, in altri bisogna dimostrare di avere un reddito e in generale le graduatorie sono formate da punteggi complessi da analizzare per chiunque.
In linea di principio sono avvantaggiati nella concessione i soggetti che richiedono l’assistenza dei servizi sociali comunali, quelli che non avendo la possibilità alloggiano presso dormitori pubblici, nuclei familiari con soggetti invalidi e naturalmente famiglie con molti figli o con reddito inferiore alla soglia di povertà, stabilita in genere sotto i 25.000 euro annui.
La cosa più bella è che i bandi escono ogni 4 anni e se uno non vince la lotteria al primo colpo può aspettare anche 8 o 12 anni. Nel frattempo lo stato di necessità è diventato stato di depressione totale. È evidente che, secondo il solito schema italico, brigare con l’amico, raccomandarsi, salire di graduatoria, anticipare i tempi, scavalcare un altro ancora più povero, è il gioco al massacro più empio che si possa immaginare: un gioco violento e assurdo voluto dalla congiunzione astrale di funzionari e politici.
Ma le domande che da anni mi faccio impongono una riflessione sull’essenza stessa di “Casa Popolare”. Perché queste case devono essere costruite in periferia, possibilmente senza servizi, trasporti e negozi? Quale pena punitiva sottende l’attribuzione di una casa popolare? Perché forzatamente brutte dal punto di vista estetico, quasi sempre senza ascensore, senza garage e senza una vita intorno?
E perché per completarle ci si impiega un tempo indefinito, quasi mai inferiore ai dieci anni? Perché costruirle con materiale scadente, dove le infiltrazioni, le muffe e la dispersione energetica sono la regola? Perché l’Istituto Case Popolari è una specie di roccaforte inaccessibile, dove non è possibile avere informazioni di nessun genere?
Ho visto molti Paesi ex-comunisti, dove le case erano tutte uguali, tutte grigie, tutte piccole e miserevoli: in questi ultimi decenni tutte quelle amministrazioni hanno tentato di modificare quello stato di cose con interventi seri, organizzati e ben studiati (anche con abbattimenti).
I quartieri delle ex case del popolo son diventati dei bellissimi quartieri, vivaci, colorati, pieni di cose e di idee. In Italia invece, in quasi tutti i Comuni, questi palazzoni sono rimasti l’emblema della solitudine, della povertà, dell’abbandono.
Nel silenzio generale e soprattutto con un approccio al problema completamente errato, a cominciare dai tecnici, dai sociologi fino ai cittadini comuni, i benpensanti proprietari di belle case e villette. Se io, da bambino, fossi stato “deportato” da un centro storico, stratificato nella sua storia millenaria, in una di queste case lontane da ogni cosa, non avrei avuto il piacere di integrarmi con la stessa società che in definitiva mi aveva discriminato, allontanato, destrutturato nella mia quotidianità.
La povertà economica è divenuta immediatamente povertà culturale e sociale: mi chiedo se sia stato un progetto ricercato (punitivo dicevo), voluto da scelte ben precise oppure nato nell’insipienza di un tempo di necessità e poi mai rivisto per pigrizia o per semplice gioco delle parti.
Non so rispondere e non oso chiederlo neanche agli abitanti delle varie case popolari che in genere hanno le scatole piene di rispondere a quesiti scontati, sentire discorsi retorici e promesse elettorali. La realtà purtroppo è una sola: queste case popolari hanno distrutto le nostre città, hanno degradato le periferie, senza risolvere davvero i problemi dei suoi abitanti, aggravandoli anzi nella sofferenza quotidiana, nella mancanza di bellezza, serenità e armonia.
Queste tre cose erano l’essenza della casa nella testa di ognuno di noi: la mafiosità italiana, l’eterna bugia consolatoria ha prodotto invece le nostre periferie, che ormai non sono fuori città, ma sono la città, nell’infelicità di molti.