di Giuseppe R.Panico Sono passati 100 anni dal disastro politico-militare di Caporetto; il tristissimo evento di una guerra mondiale con già immani perdite e disumani comportamenti;come le decimazioni dei fanti o sparare contro chi arretrava di fronte al nemico. Con Caporetto, si accusò anche di viltà i nostri soldati, colpevolizzando i circa trecentomila prigionieri fatti dagli austriaci ed osteggiando loro (per non invogliare altri ad arrendersi) ogni forma di aiuto.
Quasi una “Vendetta di Stato” che portò tanti a morire; non più rapidamente, dilaniati da cannoni e mitraglie, ma lentamente, di fame e di stenti nei campi di prigionia. La vita valeva ben poco , come anche per quei ragazzi “del 99” (appena diciottenni), schierati sulla Linea del Piave a fermare e poi vincere un nemico che, da aggredito, si era fatto aggressore ed invasore. Passarono pochi lustri e altre decine e decine di migliaia di giovani e meno giovani tornarono a morire.
Non per difesa dell'Italia, ma per un'altra aggressiva guerra, che poi divenne di nuovo mondiale. E dopo l'armistizio (8 sett, 1943), abbandonati a sé stessi , nel peggiore ripetersi della irresponsabilità politico-militare. A Caporetto andò perso, quasi metà del nostro esercito; con l'armistizio, una nuova e ben più disastrosa “Caporetto”portò, a quella che fu chiamata “La morte della Patria”. Una nazione allo sbando con Forze Armate senza ordini e direttive, senza valori e motivazioni, senza una nuova “Linea del Piave” per far fronte alla mutata realtà. Prevalse la irresponsabilità, se non la “Viltà di Stato”, dei grandi capi in fuga da Roma, il caos nazionale, il fango e la vergogna sulle pagine della nostra storia.
Gli ex alleati (Germania) si ritennero traditi, invasero l’Italia, la solcarono con le proprie linee di resistenza contro i nuovi occupanti che avanzavano da Sud: gli Anglo-Americani che, dopo aver bombardato le nostre città, avevano imposto all'Italia un'altra disfatta politica, militare e morale: la “resa senza condizioni”, così inusuale e infamante nella diplomazia di guerra. Circa 40.000 militari vennero uccisi dai tedeschi, altri seicentomila deportati (quanto le intere perdite della prima G.M.) e tanti “inceneriti” .
Se “la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi” , come diceva Clausewitz, nel suo (un tempo) celeberrimo libro “Della Guerra”, forse non basta solo ripudiarla, come fa la nostra Costituzione, se poi i cittadini non sanno prima ripudiare la cattiva politica che la può causare, o che non la sa gestire o decentemente uscirne o che, in tempo di pace, pur senza cannoni e mitraglie, causa “Caporetti” sociali ed economici.
Come la fuga dei nostri giovani all'estero, spesso i migliori, lasciati senza lavoro e futuro, o in casa dei genitori come “anziani” e assistiti “bambocci”; come la crescente povertà o come l'afflusso continuo di centinaia di migliaia di stranieri che poi assistiamo e supportiamo, o ancora quell'altissimo livello di corruzione, inefficienza ed evasione tollerato o favorito da una politica sempre più debole e “mafiocratica”. Sono oltre settanta anni che l’Italia, pur presente per missioni di pace in altri paesi in guerra, è lontana dalla “Morte della Patria”.
L'Unione Europea, la NATO, l'ONU etc hanno contribuito, attraverso una nuova cultura e diplomazia internazionale, a farci vivere in pace. La guerra poi non fa più parte di quel travaso di memorie, dai padri ai figli o dai nonni ai nipoti, di privazioni e sofferenze, viltà ed eroismi. La leva sospesa, le Forze Armate ridotte al lumicino e spesso osteggiate, da idealisti e sognatori di un mondo, purtroppo irreale. Non di rado anche nei meri compiti di difesa nazionale e dell'ordine civile, senza il quale non vi può mai essere civiltà.
“Si vis pacem para bellum” , se vuoi la pace preparati alla guerra (almeno contro le aggressioni o per accordi fra nazioni) dicevano i Latini e lo dice ancora chi, da statista, ha un senso dello Stato e della storia. Un senso non da politici trasformisti che hanno reso l'Italia, più che una penisola geografica, una inaffidabile isola politica, di bassa levatura ed esposta ad ogni mareggiata.
Anche ad una immigrazione non limitata all'asilo politico, e dunque da integrare, ma di migranti economici o “di convenienza” lasciati poi all'altrui sfruttamento ed alla continuità delle loro sofferenze. Un “esercito” di stranieri che manteniamo ed assistiamo, affiancato poi da un' altra “armata” di mezzo milione di stranieri “invisibili” e che, come tali, possono permettersi , quasi indisturbati, illegalità e criminalità.
Facile ambiente per i reduci ( o criminali di guerra) dell' ISIS, ormai sconfitto e che ricorda il Sud America per i criminali nazisti, dopo la 2° G.M. Altro che impegnarsi a rispettare le nostre regole e la nostra civile convivenza, come dice anche il Papa.“Aiutiamoli in casa loro” si dice spesso, quando “casa loro” è ormai quella che era prima casa nostra (nella sola Roma sono ormai un centinaio gli edifici pubblici e privati occupati da “invisibili” o poco visibili).
Sembra vivere una nuova, pur lenta, incruenta e celata “Caporetto” con l'urgenza per una “linea del Piave” per nulla sentita. Contro l'Italia per la sua facile e discussa accoglienza, la “linea del Piave”, la fanno ormai gli altri paesi vicini. Muri e filo spinato, militari alle frontiere, controlli su treni e automezzi, successo di partiti anti-immigrati etc.
Dalla “Morte della patria” eravamo risorti; da quella che sembra l'isolata agonia di una nazione, pare oggi difficile riprendersi. Forse perché le vere “caporetto” sono quelle formative dell'insieme scuola - famiglia e dunque dei cittadini e dei loro politici. Incapaci questi di approvare, se non in questi giorni e dopo 71 anni di provvisorietà, anche il simbolo (insieme alla bandiera) della nostra identità: l'inno nazionale (di Mameli). “Fatta l'Italia , facciamo gli Italiani”, diceva Massimo d'Azeglio un secolo e mezzo fa. Chissà cosa direbbe oggi con immigrati etc.
Dalla “Morte della patria” eravamo risorti; da quella che sembra l'isolata agonia di una nazione, pare oggi difficile riprendersi. Forse perché le vere “caporetto” sono quelle formative dell'insieme scuola - famiglia e dunque dei cittadini e dei loro politici. Incapaci questi di approvare, se non in questi giorni e dopo 71 anni di provvisorietà, anche il simbolo (insieme alla bandiera) della nostra identità: l'inno nazionale (di Mameli). “Fatta l'Italia , facciamo gli Italiani”, diceva Massimo d'Azeglio un secolo e mezzo fa. Chissà cosa direbbe oggi con la parola patria ormai ovunque scomparsa.
"Chiamami Maestro"
a Palazzo Comi in ricordo del Prof. Donato Valli
Sabato 2 Dicembre - Ore 17.30
Salone dell'Accademia Salentina - Palazzo Comi di Lucugnano
La Biblioteca Comi di Lucugnano, in collaborazione con la LUPSSU (Libera Università Popolare del Sud Salento Unito) e il Comitato Pro-Palazzo Comi "Casa della Cultura", organizza un pomeriggio di incontro e riflessione in ricordo dell'indimenticato Prof. Donato Valli.
Appuntamento Sabato 2 Dicembre p.v. presso il Salone dell'Accademia Salentina a Casa Comi per la condivisione di letture e testimonianze in ricordo dell'impegno del Prof. Donato Valli che si è sempre battuto per la crescita culturale e sociale del Salento e, in particolare, del Capo di Leuca.
Donato Valli, prima allievo e poi amico fraterno di Girolamo Comi, è stato uno dei frequentatori più assidui di Casa Comi e uno dei maggiori conoscitori dell'opera e della psicologia stessa del Poeta di Lucugnano.
Donato Valli è nato a Tricase il 24 Febbraio 1931. Allievo di Girolamo Comi, Valli è stato professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell'Università del Salento, della quale è stato preside e rettore, nonché uno dei fondatori assieme a Giuseppe Codacci Pisanelli. La sua attività scientifica e di ricerca è stata incentrata prevalentemente sulla letteratura italiana del XIX e XX secolo, sull'ermetismo e soprattutto sulla letteratura salentina. È stato direttore con Oreste Macrì della rivista L'Albero dal 1970 al 1986. Fu autore di svariate pubblicazioni. Studioso dei secoli XIX e XX, si è occupato in particolar modo di Manzoni, del purismo letterario ottocentesco, delle poetiche protonovecentesche e dell’ermetismo. È autore di numerose ricerche sulla letteratura salentina, della quale ha curato anche la prima ricostruzione storico-critica dall’Unità ai giorni nostri. Insieme con Oreste Macrì ha diretto la rivista "L'Albero" dal 1997 al 1986. Ha pubblicato i volumi: "Saggi sul Novecento poetico italiano" (1967); "Romagnosi e Manzoni tra realtà e storia" (1969); "La cultura letteraria nel Salento" (1971); "Anarchia e misticismo nella letteratura italiana del primo Novecento" (1973); "Girolamo Comi" (1977); "Storia degli gli ermetici" (1978); "Letteratura dialettale salentina dall’Otto al Novecento" (1995); "Dal frammento alla prosa d'arte" (2001); "Novecento letterario leccese" (2002); "Storia della poesia dialettale nel Salento" (2003).
Girolamo Comi è nato a Casamassella (Le) il 23 novembre 1890. Uomo di nobili origini (era Barone di Lucugnano, in provincia di Lecce), dopo aver compiuto studi irregolari in Svizzera dal 1908 al 1912, esordì a Losanna con la raccolta Il Lampadario (1912) e si trasferì a Parigi, dove venne a contatto coi principali esponenti della poesia simbolista del primo Novecento. Tornato in Italia per il richiamo alle armi nel 1915, fu presto riformato e dichiarato inabile alla guerra grazie all'intercessione del potente zio Antonio De Viti De Marco. Sposatosi nel 1918 con Erminia De Marco, dimorò dal 1920 al 1946 a Roma, dove entrò a far parte dei cenacoli poetici orfico-misteriosofici che esistevano negli anni venti nella Capitale, frequentando tra gli altri Julius Evola e, in seguito, Nicola Moscardelli ed Ernesto Buonaiuti. Dapprima frequentò il salotto romano della baronessa Emmelina De Renzis dove entrò in contatto con le idee steineriane, rimanendone influenzato, e dove conobbe Arturo Onofri stringendo con lui un sodalizio poetico. In seguito fece parte del sodalizio magico-esoterico noto come Gruppo di Ur, pubblicando sulla rivista del gruppo alcune parti della poesia Cantico del tempo e del seme (oggi in Krur 1929. Roma, Tilopa, 1981, pp. 274-276.). In seguito collaborò con lo stesso Evola scrivendo per la rivista La Torre e per Diorama Filosofico (inserto di Regime fascista, diretto da Roberto Farinacci)[1].
Dal 1920 aveva ripreso l'attività poetica, e al 1933 è databile la sua conversione al cattolicesimo. Successivamente, il poeta sviluppò un particolare concetto di "cattolicesimo aristocratico" e si avvicinò all'ortodossia fascista, alternando il prosieguo della scrittura poetica a prose di carattere politico-filosofico-morale (Aristocrazia del cattolicesimo, 1937). Nel 1946, separatosi dalla moglie, tornò stabilmente nella sua tenuta di Lucugnano, dove diede vita all'Accademia Salentina e alla rivista letteraria L'Albero, oltre al particolare esperimento economico dell'Oleificio Salentino, un tentativo di imprenditoria solidale che portò in breve tempo il poeta alla rovina finanziaria, nonostante la raccolta poetica Spirito d'Armonia (1954) gli avesse conferito un discreto successo di pubblico.
Oppresso da problemi economici, nel 1961 vendette il palazzo avito alla Provincia di Lecce per destinarlo a pubblica biblioteca, rimanendovi in qualità di custode e bibliotecario, e nel 1965 sposò la sua domestica Tina Lambrini, al suo servizio dal 1948 che col passare degli anni era divenuta anche un affettuoso sostegno morale. Morì confortato dall'affetto dei suoi paesani, che lo avevano spiritualmente e materialmente sostenuto durante gli ultimi poveri anni di vita. Morì nella sua casa di Lucugnano il 3 Aprile del 1968.
"Chiamami Maestro" ci riporta a un pomeriggio quasi intimo e delicato che si propone di radunare, in quella che fu la sala riunioni dell'Accademia Salentina, amici, allievi e cittadini in ricordo di una delle persone che più hanno dato lustro e prospettiva alla comunità salentina. Racconti, pensieri, immagini e ricordi.
La partecipazione è libera e Casa Comi è pronta ad accogliervi.
Appuntamento alle ore 17.30 di Sabato 2 Dicembre. Per informazioni chiamare in Biblioteca al numero 0833/784537 o inviare una mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
di Pino Greco Roberto Sodero, è nato a Tricase il 3 Aprile 1981.
Quella del centrocampista azzurro è una storia tutta da raccontare. Un campione della nostra Città, di cui siamo orgogliosi e fieri,c’è. Un centrocampista della Nazionale Italiana Calcio Amputati che ci regalerà emozioni azzurre, c’è. Si chiama Roberto Sodero. Anima e cuore Mondiale
Sin da piccolo cerca di dribblare un avversario molto più ostico di quelli che si trovano oggi sul rettangolo verde di calcio: la Sindrome di Klippel Trenaunay. L’avversario intacca la gamba destra di Roberto. La malattia con il passare degli anni diventa molto asfissiante, tanto da portare i medici all’amputazione dell’arto all’età di 22 anni. L’amputazione gli porta via una parte del corpo, ma non la forza di ripartire con maggiori stimoli. Il centrocampista della Nazionale italiana amputati, trova una vera e propria liberazione. Roberto diventa un concentrato di volontà dove niente è impossibile, un esempio per chi si vergogna della propria disabilità. Infatti, il futuro mediano azzurro completa gli studi universitari con una laurea in ingegneria informatica, trova subito lavoro e si sposa. Inizia anche la sua vita sportiva. Fatta per un breve periodo da nuoto e tennis, fino al calcio. La preferita di tutte le discipline. E ,di certo,quella che più lo ha reso più celebre.
Il tutto inizia a 31anni,racconta Roberto,quando guardando un servizio al TG sono venuto a conoscenza di un gruppo di ragazzi amputati, che rispondendo all’appello di Francesco Messori, stavano formando la Nazionale Calcio Amputati Italiana. Non ci ho pensato su due volte, li ho subito contattati ed ho iniziato con loro a praticare uno sport che avevo sempre amato, ma avevo solo potuto guardare da spettatore. Sono felicissimo di essermi unito a questo gruppo di ragazzi fantastici, con cui sto condividendo questo percorso.
Oggi Roberto ha 36 anni , è il mediano della Nazionale Italiana Calcio Amputati, uno nato senza un arto, lavorare sui polmoni con dei compiti precisi. L’unico centrocampista pugliese e salentino presente nella rosa che canterà l’inno di Mameli, uno dei venti che con le sue stampelle sarà sempre lì
lì nel mezzo del gioco con la maglia azzurra dove sfiderà i suoi pari grado nel Mondiale del 2018 in Messico. Uno dei tanti ragazzi che all’apparenza hanno qualcosa in meno, ma in realtà hanno molte cose in più: carattere, cuore, anima e grinta.
IL SALENTO ASPETTA LA NAZIONALE. E’ ormai fatta per la visita della Nazionale Calcio Amputati, che il prossimo week end farà visita sui campi di Lecce, per allenarsi a porte aperte e portare sui campi una testimonianza di sport ed entusiasmo, per la vita. L’evento è stato realizzato grazie all’impegno del comitato provinciale del CSI di Lecce e del suo presidente, nonché vice presidente CSI a livello nazionale, Marco Calogiuri. Primo appuntamento alle 9 di sabato, presso il Campo Oratorio “Don Pasquale” via M. Buonarroti di Lecce, dove è fissato il ritrovo per il primo allenamento del collegiale che servirà ai tecnici azzurri, i due emiliani Renzo Vergnani e Paolo Zarzana per testare il momento di forma dei ragazzi in vista dei prossimi appuntamenti ufficiali. Sabato pomeriggio, la Nazionale Amputati sarà in campo alle ore 14.30 presso lo stesso campo per allenarsi con ragazzi amputati che vogliono avvicinarsi a questo sport, per poi concludere una bellissima giornata con una partitella con ex glorie dell’US LECCE. Infine domenica 2 dicembre ore 9 sempre nello stesso campo ultimo allenamento in terra salentina. Ad incoraggiare le “stampelle azzurre” le parole del numero uno del CSI, Vittorio Bosio: “Questa squadra rappresenta un fiore all’occhiello per la nostra associazione, quanto ad inclusione, integrazione ed appartenenza. Ai ragazzi, ai tecnici e a tutti gli atleti con disabilità va il nostro aiuto e sostegno, augurandoci sempre nuovi innesti in rosa”.
Un’emozione particolare sarà per il giocatore salentino Roberto Sodero, che ospita nella sua bellissima città i propri compagni di squadra: “Portare i miei compagni in Salento è per me una grande emozione e motivo di orgoglio. Il nostro obiettivo è quello di far crescere il movimento del calcio per amputati, coinvolgendo nuovi atleti soprattutto a sud di Roma, dove ci sono pochissimi ragazzi che praticano questo sport. Speriamo in una grande risposta della Città di Lecce”.
TRICASE, STADIO COMUNALE SAN VITO
E PALAZZETTO DELLO SPORT :
MANCANO I PARCHEGGI RISERVATI AI PORTATORI DI HANDICAP
Un disabile tricasino che ama lo sport e spera di trovare parcheggio
Caro direttore, grazie per il vostro impegno ventennale a tutta la Città di Tricase e ai tricasini.
Tante grazie per lo spazio e l’attenzione che ci riservate a noi disabili.
Questi quattro righi sono indirizzati a chi amministra la Città di Tricase.
Non voglio prolungarmi nelle solite nostre tristi storie, voglio solo segnalare per quelli come me che amano lo sport, l’assenza dei parcheggi riservati ai portatori di handicap, nello spazio dove sostano le auto, nelle vicinanze dello stadio San Vito e del palazzetto dello sport di Tricase.
Pensando di fare cosa gradita. Ringrazio tutti anticipatamente.
Allego una foto dell’area riservata ad un parcheggio delle auto del palazzetto dello sport di Tricase, dove si documenta l’assenza di spazio riservato ai portatori di handicap