La mia colonna di Alfredo De Giuseppe
Si parla diffusamente in questo momento di dare “maggiore autonomia” alle Regioni.
Come tutte le riforme degli ultimi anni, anche questa viene condita da una rassicurante espressione linguistica, da due slogan facili ad uso e consumo dei fans e da quattro veloci comparsate televisive. Cosa c’è dietro queste parole vuote, che pure sembrerebbero andare verso i desideri degli italiani?
Emerge con chiarezza l’antica voglia delle parti più ricche del Paese di non condividere il proprio benessere con altre zone più povere, (che invece accettano il tutto come destino incontrovertibile). Questa eventuale (sciagurata) riforma si innesta però in uno Stato complesso dal punto di vista istituzionale, burocratizzato e parcellizzato. Si vuole, ancora una volta, aggiungere un qualcosa senza toccare quello che di sbagliato e non funzionante sopravvive sulle nostre teste.
L’Italia, dopo la sommatoria di tentate riforme, da un punto di vista istituzionale ha questi numeri: 7.915 Comuni, 80 Province oltre a 14 aree metropolitane e a 13 ex provincie delle Regioni a Statuto speciale, per un totale di 107. Poi ci sono 20 Regioni di cui 5 a Statuto speciale. Nel 2014 è stato introdotto il concetto di Area Vasta, di cui al momento non si conosce il numero effettivamente operativo.
Non possiamo dimenticare però che all’interno di questi Enti vi sono una pletora di organismi da far paura: 87 ATO (ambiti territoriali ottimali) per i Rifiuti; 69 ATO Acqua; 48 Autorità di bacino; 150 Consorzi di bonifica; e poi infine circa 3000 società partecipate a vario titoli da Enti Istituzionali.
Ora, a parte il salutare ripasso di Educazione Civica, c’è da chiedersi: può reggere tutta quest’impalcatura? Ci sono i fondi necessari? C’è La giusta competenza e le corrette responsabilità amministrative su ogni singola decisione operativa?
Partiamo da un solo esempio: nel 2014 Del Rio firmò una riforma che prevedeva l’eliminazione delle Province; il referendum del 2016 bocciò tale riforma lasciando le Province in una specie di limbo, come Ente di secondo livello non votato dai cittadini ma dai consiglieri comunali di ogni Comune.
Nel frattempo sono stati ridotti drasticamente i finanziamenti annuali da parte dello Stato centrale, lasciando loro però la piena competenza su strade provinciali e scuole superiori. In pochi anni si son visti gli effetti: ponti caduti, scuole senza manutenzione, strade interrotte e ormai senza alcuna cura. Del resto in capo alle Provincie ci sono 132mila chilometri di strade e 1918 ponti (di cui 802 presentano segnali di usura e pericolo) e 5.100 scuole (di cui ben il 60% senza certificato incendi).
Un serio programma di governo dovrebbe iniziare dalla riflessione su questi dati.
Lì dentro c’è la vita delle persone e la possibilità di una vera spending-review.
Se ci fosse in Italia una forza politica capace di approfondire gli argomenti, di formare una classe dirigente accorta e tecnicamente preparata, di affrontare il giudizio degli elettori senza abbindolarlo con promesse eclatanti, se tutto ciò fosse reale, noi potremmo avere finalmente l’idea di uno Stato più organizzato, più efficiente, più vicino ai nostri bisogni.
Nell’epoca del web molte soluzioni organizzative vanno ripensate, alcune cose eliminate, a quasi tutte va tolta quella patina ottocentesca (timbri, marche da bollo, atti notarili) che blocca ogni vera innovazione.
Tanto per giocare, comunque dico la mia. In un futuro non tanto remoto, stando dentro un’Unione Europea sempre più politica, vedrei i Comuni come entità non inferiori a 30.000 abitanti: oggi ci sono Comuni di mille abitanti che necessitano della stessa organizzazione, di uffici e funzioni dei Comuni di centomila abitanti. Rafforzerei poi il ruolo delle Province: in primis è l’identificativo reale e storico per ogni abitante italiano; questo Ente potrebbe incorporare una serie di attività oggi demandate ad altri Enti, vedi l’organizzazione provinciale della raccolta dei rifiuti, dei consorzi di bonifica ed altro.
Le Province hanno già sedi storiche, competenze e organizzazioni per spiccare un salto di qualità.
A questo punto eliminerei le Regioni, come vero Ente inutile in quanto dovrebbero essere le Province ad interfacciarsi con i vari ministeri, che avrebbero il compito di uniformare le modalità operative di ogni comparto in tutta Italia. La sanità uguale in tutto il Paese, così come la scuola, l’assetto del territorio, le tasse, gli stipendi, le pensioni e i trasporti. Non venti diverse Italie ma una sola, ben strutturata, coordinata con l’Europa, la nostra grande casa madre.
Insomma un progetto di nazione che è quasi l’opposto di quanto progettato in questi ultimi trent’anni, durante i quali seguendo le sirene secessioniste di Bossi si è continuamente minato il concetto di Stato unitario e di comunità coesa. Non maggiore autonomia a potentati locali, ma un’efficiente organizzazione statale, meno costosa e meno parcellizzata dell’attuale.
Se ci fosse una seria forza politica, che davvero volesse cambiare l’Italia e non inseguirla nelle sue peggiori pulsioni…
REDDITO DI CITTADINANZA: CI SIAMO. MA ATTENZIONE ALLE PENE!
di Carlo Errico
Con il Decreto Legge 28 gennaio 2019 n.4 il governo ha dato il via libera, d’urgenza, alle disposizioni in materia di Reddito di cittadinanza (abbreviato: Rdc).
E’ l’art. 1 a definirne le funzioni essenziali, non mancando di specificare che da Reddito di cittadinanza si trasforma in Pensione di cittadinanza per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni (adeguata agli incrementi di speranza di vita).
Tralasciando il funzionamento del nuovo istituto (che decorrerà in concreto dal mese di aprile 2019), desidero sollecitare una particolare attenzione al complesso sistema sanzionatorio delineato dall’art. 7 del D.L. n.4/2019, che punisce, sostanzialmente, tutta una serie di comportamenti (e sempre che il fatto non costituisca più grave reato) finalizzati ad ottenere indebitamente il beneficio del Rdc (o Pdc).
Ciò che balza evidente è la scelta del rigore estremo operata dal governo. La scelta tra sanzione amministrativa e sanzione penale si è concretizzata a favore di quest’ultima, e della specie più afflittiva (delitto, e non la meno grave contravvenzione), con pene che vanno da un minimo di 2 anni ad un massimo di 6 anni di reclusione per una serie di comportamenti in sede di domanda di Rdc che vanno dal rendere o utilizzare dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, alla semplice omissione di fornire informazioni dovute.
Leggermente inferiore la pena prevista (dal minimo di 1 al massimo di 3 anni di reclusione) per l’omessa comunicazione delle variazioni di reddito o del patrimonio o di qualunque informazione dovuta e rilevante ai fini della revoca o della riduzione del beneficio, con una totale parificazione, ai fini della consumazione del reato, tra l’omissione vera e propria e il semplice ritardo rispetto ai termini previsti dalla normativa.
Alla condanna in via definitiva per i reati suddetti consegue di diritto l’immediata revoca del Rdc, con efficacia retroattiva ed obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito. Accanto alle sanzioni penali ed alla revoca del beneficio, la norma prevede poi (comma 4. art. 1 D.L. n.4/2019) che alle dichiarazioni accertate come non vere e alla omessa (o ritardata) comunicazione di qualsiasi intervenuta variazione rilevante (reddito, patrimonio, composizione del nucleo familiare dell’istante), consegua allo stesso modo la revoca retroattiva del beneficio con obbligo di restituzione.
E non basta: è prevista la decadenza dal beneficio (quindi, non la revoca; non c’è obbligo di restituzione), totale o parziale per tutta una serie di comportamenti di uno qualsiasi dei componenti il nucleo familiare del beneficiario, sostanzialmente legati all’obbligo di mantenersi disponibili al lavoro e all’aggiornamento professionale, oppure allo svolgimento di lavoro in nero (sarà compito dell’INPS competente ad irrogare le sanzioni diverse da quelle penali e a recuperare l’indebito).
Insomma, ce n’è per tutti! Al di là di una palese foga sanzionatoria e della chiara sfiducia verso i tempi della giustizia penale (come si giustifica, altrimenti, che il comma 4 preveda l’immediata revoca in via amministrativa quando si accertano gli stessi comportamenti che costituiscono reato ai sensi dei commi 1 e 2?), emerge chiarissima la diffidenza verso i possibili beneficiari del Rdc, al punto da imbrigliarli in una rete di adempimenti prima e dopo l’ammissione al beneficio, con facilissime ricadute nell’area della sanzione penale.
La ratio di questa scelta è evidente: chiedere, ottenere e mantenere il Rdc non avendone diritto è comportamento riprovevole perché rischia di far cadere i delicati equilibri del sistema e sottrae fondi a persone (gli aventi diritto) che vivono sulla soglia della povertà. Da qui, dunque, l’anticipazione dei comportamenti penali rilevanti già al momento della domanda.
Con il primo dubbio di costituzionalità della norma che non distingue, appunto, tra chi ha chiesto e non ottenuto il Rdc, e chi lo ha ottenuto con l’inganno, soprattutto se si considera (i primi commentatori hanno sottolineato la differenza) che nel primo caso siamo il presenza solo del pericolo di un danno e nel secondo caso il danno è già concreto.
Il Parlamento sta approntando in questi giorni gli emendamenti al “decretone” approvato dalla commissione Lavoro del Senato volti ad aumentare i controlli per chi chiede il Rdc risultando separato o divorziato dopo il 2018 (è degli ultimi mesi la corsa alle separazioni ed ai cambi di residenza) e per gli immigrati che accedono al beneficio; come pure a prevedere nuove ipotesi di decadenza dalle agevolazioni e sanzioni ai datori di lavoro che non mantengono alle dipendenze persone beneficiarie del reddito.
Insomma, un sistema complesso che si complicherà ancora di più sulla linea di partenza!
QUALE TRICASE VOGLIAMO
di Nunzio Dell’Abate
Le riflessioni del Direttore del Volantino sugli imminenti lavori di restringimento dei marciapiedi di via Roma per un importo di € 51.000 a carico del bilancio comunale riaprono il dibattito sull’idea di città che vogliamo in termini di viabilità, di mobilità e soprattutto di qualità della vita.
Non vi è dubbio che quei marciapiedi, come d’altronde quelli su via Cadorna, abbiano sin dall’inizio manifestato tutte le loro pecche progettuali, per fruizione ed estetica e che quindi, prima o poi, una loro riqualificazione andava escogitata.
Ma forse sarebbe stato opportuno ripensare prima l’intero centro urbano, il suo perimetro ed il tratto identitario da imprimere. Altrimenti potrebbe rivelarsi un intervento spot, magari presto superato da altre esigenze e sensibilità, con inutile sperpero di risorse pubbliche. Va studiato ed attuato un piano traffico adeguato e complessivo.
Fino ad oggi si è intervenuti con aggiustamenti a macchia di leopardo che hanno finito nella maggior parte dei casi ad intasare ed inquinare zone nevralgiche della città.
Va rivista la segnaletica stradale, incrementata e rinnovata con i tempi quella informativa sui luoghi e servizi del paese ed infine regolamentata a dovere quella pubblicitaria.
Vanno individuate e ben servite le aree a parcheggio, anche incentivando attraverso delle apposite convenzioni la messa a disposizione di terreni o spazi privati.
Tanto beneficio ha portato il parcheggio libero di piazza Caserta ed occorre insistere con le Ferrovie per utilizzare a tal fine parte dell’ampio spiazzo a ridosso del passaggio a livello.
Ma preliminare è la scelta strategica che si vuol perseguire e dunque il compito assegnato ad ogni pezzo del nostro centro urbano. Ad esempio via Roma deve essere intesa come una semplice strada di accesso e quindi la si deve caratterizzare per questa finalità in termini di percorrenza e di sede viaria?
Oppure come strada per il parcheggio e la sosta di veicoli? O invece come zona di passeggio, svago, aggregazione e promozione della città, già quindi parte de suo cuore pulsante?
Nei primi due casi si agevola l’uso residenziale degli immobili che vi si affacciano, nell’ultimo quello ricettivo/ristorativo, di intrattenimento e commerciale. E così a seguire.
La scelta spetta a chi amministra, anche in un’ottica di medio/lungo termine, purchè sia chiara e convinta. Certo è necessario l’ascolto e la condivisione della comunità e soprattutto un estenuante percorso di educazione a nuovi stili di vita ed opportunità.
Ma talvolta bisogna osare per uscire dall’ordinario, per non dire dallo stantio, ed elevarsi a Città attraente e produttiva
di Alessandro Distante
Mentre stavamo chiudendo il numero di questa settimana, siamo stati contattati dalle Forze dell’Ordine per una richiesta di collaborazione su una indagine che coinvolge alcuni poteri forti di Tricase.
Tutto nasce dalle nostre rubriche; secondo l’ipotesi accusatoria sarebbero state inviate in Redazione, da persone interessate, false notizie, poi pubblicate, al solo scopo di creare inutili allarmismi e un clima di generale mobilitazione con fini insurrezionali.
Da qui la richiesta di collaborazione al nostro Redattore Pino Greco
(vedasi foto che pubblichiamo malgrado il riserbo che copre le indagini e la privacy)
Le indagini riguardano, in particolare, alcuni articoli usciti negli ultimi tempi che contenevano attacchi ad importanti Istituzioni e soprattutto le notizie apparse nella nostra rubrica “Segnalazioni” che, sempre secondo le indagini, sarebbero false e messe in giro e quindi pubblicate solo per mettere in difficoltà l’Amministrazione Comunale.
Nel dare notizia di queste indagini e nell’assicurare da parte della Redazione la massima collaborazione, avendo già confessato alle Forze dell’Ordine la nostra assoluta buona fede, abbiamo ritenuto comunque di uscire con il numero della Settimana perché l’informazione non può mancare in una Città come Tricase ma soprattutto perché è la Settimana del Carnevale e quindi un periodo nel quale ….. ogni scherzo vale!
di Pino Greco
I titolari di attività commerciali nella frazione di Depressa,dopo aver sentito circolare alcune notizie in merito ad una ipotesi di modifica del senso di marcia su via Brenta, chiedono:
” che non venga presa alcuna decisione in merito a quanto in oggetto, considerato il fatto che una tale decisione potrebbe a nostro avviso peggiorare la già delicata situazione economica che le nostre attività subiscono perché ubicate fisicamente in una frazione,fuori da una zona commerciale più trafficata come nel nostro capoluogo.
Sarebbe auspicabile invece una maggiore presenza di vigili urbani per far si che venga rispettato il codice della strada specie per le auto in sosta vietata,in modo tale da far scorrere il traffico senza grandi problemi.
Confidiamo in una vostra presa in considerazione della presente,rimanendo a disposizione per una eventuale riunione per poter discutere dell’argomento”.
Dunque su via Brenta una delle strade principali di Depressa, il pomo della discordia è l’istituzione o meno del senso unico.
I commercianti che ancora resistono nella frazione sono stati chiari: niet!
E lo hanno messo nero su bianco all’attenzione di Sindaco Chiuri, Assessore Mario Turco e Consigliera della frazione, Francesca Longo.
A questa proposta sembrerebbe che se ne aggiunta un’altra di segno contrario favorevole al senso unico e che stia partendo una diversa raccolte di firme.
Come andrà a finire?