Giovanni U. Cavallera, nato a Tricase e docente nel Liceo Scientifico Statale “Arturo Tosi” di Busto Arsizio, ha vinto il Premio Internazionale CIRSE 2016.

Giovanni U. Cavallera, dopo aver frequentato il Liceo Classico “Stampacchia” di Tricase, si è laureato presso l’Università Cattolica di Milano, conseguendo successivamente il Dottorato di ricerca in Filosofia dell’educazione presso l’Università di Firenze e quindi l’abilitazione e la cattedra di Filosofia e Storia nei licei. Ha curato, altresì, l’«Archivio della Pedagogia Italiana del Novecento» (Firenze) per la «Fondazione Nazionale Vito Fazio-Allmayer». Alla sua attività di docente affianca l’incarico di redattore di “Porphyra. International academic Journal in Byzantine Studies”, e di collaboratore del Centro di Studi Bizantini “Magnaura” di Venezia. Dove Platone riceve il battesimo non è la prima pubblicazione del giovane studioso, di fatti oltre a vari saggi sulla civiltà bizantina, si è interessato al pensiero del positivismo italiano, cui ha dedicato diverse pubblicazioni scientifiche, ma ha anche pubblicato studi sulla filosofia neoidealista, sul significato dell’architettura e sul Design, partecipando come relatore a diversi convegni scientifici. Socio ordinario del Centro Italiano per la Ricerca Scientifico-Educativa, collabora con la Società di Storia Patria per la Puglia, di cui è Socio ordinario, con l’Università del Salento e con il Centro Interuniversitario di Bioetica e Diritti umani.

Il CIRSE – Centro Italiano per la Ricerca Storico-Educativa nasce nel 1980 ed è la più antica organizzazione pedagogica universitaria italiana. Ha contribuito non poco allo sviluppo del settore storico-pedagogico nella Penisola e da anni si è aperto a fruttuosi rapporti scientifici internazionali. Dal 2014 promuove un Premio Internazionale riservato a studi di storia dell’educazione, Premio di ampia risonanza in ambito accademico.

Quest’anno la Commissione valutatrice, composta dai proff. Tiziana Pironi (Presidente, Università di Bologna), Emma Beseghi (Università di Bologna), Luciano Caimi (Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia), Carmela Covato (Università di Roma Tre), Antonia Criscenti (Università di Catania), Carla Ghizzoni (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Gianfranco Bandini (Università di Firenze), tenendo conto dell’originalità del prodotto scientifico; della rispondenza dello stesso alle tematiche afferenti al settore storico-educativo; della esaustività della ricerca; dell’adeguatezza dell’apparato critico-bibliografico, anche di profilo internazionale, ha assegnato il premio a Giovanni Cavallera per il suo volume Dove Platone riceve il battesimo. La formazione come fondamento nell’Impero Romano d’Oriente, Edizioni Mimesis, Milano 2015. Ecco la motivazione: «Il volume affronta coraggiosamente un tema di grande impegno e in parte disatteso dalla storia dell’educazione com’è quello della formazione nella complessa e quasi millenaria vicenda dell’Impero Romano d’Oriente. Nel quadro del fecondo intreccio fra pensiero ellenistico, eredità giuridico-letteraria romana e cristianesimo, tratteggia il progressivo delinearsi della specificità propria della cultura bizantina, con le sue ricadute sul versante educativo, illuminato da una profonda visione teologica. Lo studio offre uno spaccato storico-critico, documentato da fonti e letteratura critica, che orienta alla lettura di una originale pedagogia della formazione dell’uomo, messa in scacco proprio dall’oblio della romanità e dei suoi perduranti valori classici, nel passaggio travagliato del tardo impero romano d’Oriente, dall’antichità alla modernità».

Il saggio di Cavallera è la prima storia organica del concetto di formazione in Bisanzio e dell'impostazione scolastica e universitaria di una civiltà che ha avuto una importanza considerevole nella storia della Terra d’Otranto. Si pensi solo al ruolo del Monastero di San Nicola di Casole e alla presenza capillare delle cripte nel Salento. In questo risiede l’originalità di un’opera che congiunge diversi aspetti della cultura bizantina – dalla teologia all’analisi del cerimoniale - per fornire un quadro coeso e completo del retaggio culturale bizantino, la cui grandezza è stata troppo spesso trascurata in nome di vecchi pregiudizi ormai superati dalla moderna storiografia.

 

 

Lettera di Giuseppe Scarascia a Vincenzo Resci

(In margine alla rivolta di Tricase del 15 maggio 1935)

Lettera ad un amico in carcere

La rivolta delle tabacchine si consumò nella tarda serata di giovedì 15 maggio 1935 tra le 20,40 e le 21, davanti al municipio di Tricase, sotto il fuoco dei carabinieri e finanzieri che spararono ad altezza d’uomo sui manifestanti.

L’assassinio di cinque persone non bastò a placare gli animi della polizia fascista che nelle settimane successive infierì ancora sulla popolazione prelevando decine di cittadini, colpevoli di aver partecipato, o solo assistito, alla manifestazione. Nella retata del 22 maggio finirono in carcere gli imputati eccellenti, tra i quali Vincenzo Resci, cittadino esemplare, bollato dal podestà Edgardo Aymone come istigatore della rivolta, mentre al contrario si era impegnato, sin dal giorno precedente, nella pacifica iniziativa di scrivere una supplica al capo del governo e sottoporla alla firma dei soci del consorzio.

Difeso in Corte d’Assise dall’avvocato Antonio Dell’Abate, Resci fu assolto con formula piena, dopo aver pagato il prezzo di una lunga detenzione.Il ritorno a casa avvenne il 2 aprile 1936, accompagnato da Giuseppe Scarascia, l’amico che lo aveva sostenuto nei mesi di prigione tenendolo informato sullo stato di salute della madre e sulle iniziative difensive che egli stesso coordinava da Bari d’intesa con il difensore Antonio Dell’Abate.

La lettera che segue riproduce tutto questo ed arricchisce di utili dettagli gli elementi di conoscenza sulla rivolta e sul clima che si visse nel paese nelle settimane successive al 15 maggio. L’autore della lettera è Giuseppe Scarascia, funzionario del Ministero dell’Educazione Nazionale, che all’epoca dei fatti risiedeva a Bari, quale delegato del suo ministero presso il Provveditorato regionale alle OO.PP. Legatissimo al paese natale, era sua abitudine trascorrere il fine settimana a Tricase, cosa che fece anche il 17, 18 e 19 agosto del 1935, tre giorni nei quali si mosse freneticamente tra il paese e la marina incontrando, spiegando, convincendo gli interlocutori dell’innocenza di Resci e degli altri detenuti.

Il 20 agosto rientrato in ufficio a Bari scrisse la lettera a Resci.

La prima informazione fu per la madre, che aveva visitato nel pomeriggio del 18 agosto trovandola “inconsolabile per l’assenza del figlio”, ma nel contempo fiduciosa nella giustizia di Dio e degli uomini e rassicurata per la forza d’animo del figlio che trovava alimento «nella fonte viva dell’innocenza».

In casa Resci aveva incontrato, in visita alla madre, le tre figlie dell’avvocato magliese Paolo Tamborino con i rispettivi mariti. Uno di questi era il medico prof. Milziade Magnini, deputato in carica, segretario federale del P.N.F. di Taranto, col quale Scarascia s’intrattenne prendendo gli accordi necessari sui passi da fare presso le autorità fasciste.

Lasciata la madre, si recò a casa dell’avvocato Dell’Abate, a Marina Porto, restando colpito e commosso dall’interesse col quale questi seguiva la vicenda dei detenuti e al quale fornì notizie e informazioni utili alla difesa, raccolte durante il giro d’incontri a Lecce e a Tricase. Nella marina incontrò anche Domenico Caputo, protagonista di primo piano nel giorno della rivolta, che la sera maledetta aveva cercato di tranquillizzare gli animi parlando dal balcone prospiciente sul municipio, sede del Circolo del Littorio. Applaudito all’inizio, fu coperto di fischi nel momento in cui aveva preso le difese del Podestà, vedendosi costretto ad interrompere il discorso. Ora però appariva “mutato e ravveduto”.

Rirornato a Tricase Scarascia trovò il tempo per un altro incontro importante. In via XXI Aprile fece visita al commissario prefettizio Giuseppe Caloro, uomo d’ordine del regime, ma di grande affidabilità personale. Il colloquio si protrasse sino all’una e mezza di notte ed ottenne il risultato di convincere l’interlocutore dell’innocenza di Resci e di lasciarlo animato dalle migliori intenzioni, che facevano ben sperare ora che l’ambiente appariva “purificato” dalle dimissioni del podestà Aymone, principale accusatore di Resci.

L’ultimo pensiero nella lettera è per altri due imputati eccellenti, Mario Ingletti e Peppino Cortese, rinchiusi in celle attigue a quella di Resci, al quale Scarascia chiese di «mandare un saluto ad alta voce» secondo la modalità di comunicazione in uso nel carcere.

Giuseppe Scarascia a Vincenzo Resci

Bari, 20 agosto 1935 (martedì) VIII

Mio caro Zino,

dopo le impressioni liete a Tricase di domenica scorsa, soltanto adesso ho riacquistato la mia calma e sono in condizioni di scriverti. D’altra parte me lo ha impedito anche l’enorme lavoro che ho trovato in ufficio, dopo tre giorni di assenza. Ti assicuro innanzi tutto sulle buone condizioni di salute della Mamma tua, la quale è inconsolabile, naturalmente, per la tua assenza. Ad ogni modo Lei è molto sollevata, e spera nella giustizia del Signore e degli uomini: parlarLe di te è la sua più grande consolazione, il suo vero sollievo. L’ho messa al corrente di tutto, e L’ho assicurata nei tuoi riguardi, sulla tua grande forza d’animo, che attinge alimento nella fonte viva dell’innocenza.Non il compianto, ma l’esecrazione per quel che a te è stato fatto è profonda, generale, sentitissima, come mai io avrei potuto immaginare. E ciò, caro Zino, dev’essere per te motivo di orgoglio. Non mi ero punto sbagliato, quando ti scrissi la prima volta dicendoti che questa prova aveva accresciuto in tutti di mille cubiti la simpatia e l’affetto verso di te, ed ora, permetti che aggiunga anche la venerazione dopo i lunghi mesi di tormenti materiali e morali. Domenica dopo pranzo vennero a fare compagnia a Mamma tua le tre figliole di don Paolo insieme con i rispettivi mariti. Col prof. Magnini abbiamo preso gli accordi necessari per il da farsi, e perciò devi essere sempre maggiormente tranquillo.

Secondo il tuo espresso desiderio, alle ore 20 andai alla Marina Porto per porgere i tuoi saluti all’on. Dell’Abate , e per informarlo di quanto io ero venuto a conoscenza durante la mia gita a Lecce e a Tricase. L’interessamento di dell’Abate per tutti, e per te in particolare, è davvero commovente. Egli vede sempre più l’inconsistenza di tante accuse e spera moltissimo nella miglior soluzione finale. Parlammo anche delle tue condizioni di salute, ed egli insieme con me ritiene che ti farebbe molto giovamento, se limitassi un po’ il fumo; non smetterlo, ma limitarlo, usando, se ti sarà possibile, sigarette denicotizzate. Stai attento, mio caro Zino, anche perché bisogna che tu appaia calmo, sereno, forte specialmente dinnanzi agli occhi dei tuoi accusatori , i quali se ti vedessero abbattuto, dopo il riconoscimento della tua innocenza, avrebbero motivo di gioire non fosse altro che per il danno fisico procuratoti.

Siamo intesi? Comunque quale reato infamante hai tu commesso, che possa farti arrossire? Non ti ho detto quanto sei salito in alto nell’affetto e nell’estimazione generale? Avrei voluto che tu fossi stato presente ieri, quando andai a visitare in clinica qui a Bari, il povero Ippazio Greco da Tricase, condannato certamente per un cancro al fegato. Dimenticava, poveretto, le sue gravissime condizioni per domandarmi con affettuoso interessamento di te, e tu sai come sono sinceri i nostri contadini. Mi diceva: «Don Vincenzino poteva fare davvero il signore, ma per il suo buon cuore non aveva mai pace, perché tutti ricorrevano a lui, e lui tutti ascoltava. Pure le petre lu chiancene per quello che l’annu fattu.»

Al Porto volli vedere anche Domenico Caputo , il quale è molto molto mutato. Della tua innocenza, che si fa strada ad ogni costo, glielo dissi e lo confermai con la più grande sicurezza. È ravveduto, e la sua voce non è più quella…

Tornato dalla marina ebbi un colloquio con Peppe Caloro durato sino al tocco e mezzo dopo mezzanotte. Detti la tua nobilissima lettera a lui indirizzata, ed immagina quanto parlammo di te.

A sua richiesta lo illuminai nei riguardi di tante posizioni. Egli sembra animato dalle intenzioni migliori, speriamo che gli venga facilitata la via dall’ambiente purificato e in parte da purificarsi. Ha ripreso la pratica per la istituzione della tanto da me desiderata scuola media inferiore. Ci riusciremo? Comunque a me basta tenere desta l’attenzione al riguardo, sicuro che alla fine la spunteremo. In Peppe Caloro ho fiducia. Sembrava anche che si potesse presentare l’opportunità di avere a Tricase la squadra di rialzo alla stazione ferroviaria. Ma, purtroppo, è un pio desiderio. Proprio ieri ho parlato con l’Ing. Fiastri , direttore della Sud-Est, ed ogni speranza è venuta meno.

Mi pare, mio caro Zino, d’averti tenuto al corrente di tante cose, che possono interessarti, e che rileggendo questa mia, anche per poterla meglio decifrare, ti potrai svagare un pochetto. Manda un saluto ad alta voce a Mario Ingletti e a Peppino Cortese .Stefania , che ha voluto essere informata di tutto, animatamente, ti saluta cordialmente e ti porge, a mio mezzo, i migliori auguri. Bacetti dai figlioli. Da me abbiti, caro Zino, con l’affetto più grande e sempre immutabile un abbraccio forte forte.

Aff.mo tuo Peppino.

di Anna Paola Dell’Abate  Parlare dello zio Mino non è cosa facile poi, se penso a tutti i momenti passati insieme sino all’ultimo, le idee, le parole vengono spontanee e sono tuffi al cuore.Ognuno di noi parenti, amici o semplici conoscenti ha dei ricordi bellissimi dello zio e con lo zio.

È stata una presenza costante nell'arco della mia vita e ogni volta che chiedevo un consiglio era pronto a darlo e soprattutto ad ascoltare.

Della sua persona il pregio che ho amato di più, per il quale l'ho sempre ammirato, è stato il suo amore per il prossimo che si esplicava sia nella sua indefessa attività con le Acli sia nei rapporti di ogni giorno. Altro merito che mi fa amare lo zio era il suo saper affrontare silenziosamente e in maniera quasi fatalista le sue temibili e dolorose malattie. Spesso e fino all'ultimo era lui a dare coraggio a noi piuttosto che il contrario. «Se Dio vuole» era il suo credo.

Lo zio nel corso della sua vita non ha mai fatto pesare la sua "posizione". Conosciutoe stimato da tantissima gente sparsa per l'Italia, aveva parole di conforto e speranza con chiunque si fermasse a parlare con lui. Non c'erano differenze. Stringeva le mani a tutti senza esitazione alcuna. Chiunque si rivolgesse a lui - se possibile - otteneva aiuto. Tutti lo stimavano.                               

Durante i pomeriggi trascorsi a casa delle zie era un piacere ascoltarlo e notavo con quanta passione perorava le sue posizioni e le sue battaglie sempre a difesa dei più sfortunati.                                              

In molte occasioni è stato il "mio biglietto da visita". Cosa voglio dire? Quando mi capitava soprattutto nel periodo liceale di partecipare a feste, incontri a casa di amici che mi presentavano i loro genitori e il mio cognome non bastava, per farmi inquadrare nel contesto sociale, dicevo con fierezza sono la nipote di Giacomino De Donno.

E lì, ottenevo come una sorta di lasciapassare perché lui era una certezza per loro ma soprattutto per me.

Ora che non c'e più, difficile colmare il vuoto che ci ha lasciato, non dobbiamo fare altro che continuare sulla sua scia: metter il prossimo al centro dei nostri pensieri e delle nostre attività, proprio come faceva lui.

Antonio e Sergio quali suoi "eredi" lo stanno facendo da tempo con massimo impegno e orgoglio e ora hanno una responsabilità in più e anche io dovrò farlo perché solo così potrò dire ancora una volta sono lanipote di Giacomino De Donno.

Ciao zio, Ti voglio bene, sarai sempre con me nel mio cuore.

di Pino Greco  SABATO, 11 MARZO 2017. TRICASE, OSPEDALE PANICO: “ PORTINAI/PORTANTINI DOVE FARE I BISOGNINI ” ? LA  PROMESSA DI SUOR MARGHERITA: “…PROVVEDEREMO ”.  

Brava, serena e gentile. Abbiamo incontrato suor Margherita Bramato

Questa settimana VIDEOVOLA è atterrato all’ingresso dell’ospedale Panico di Tricase.

Il disagio segnalato in Redazione?

La mancanza di un bagno per i “ portinai/portantini ( portinaio che custodisce e sorveglia l’ingresso dell’ospedale 365 giorni l’anno ) dove fare i propri bisognini ” .

Abbiamo intervistato suor Margherita Bramato

Guarda “ ….LA PROMESSA ” . Clicca su VIDEO

 

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