di Ercole Morciano RICORDANDO MAESTRO ROCCO LONGO
Tricase, piazza Cappuccini, 2016. Rocco Longo, 3° da sinistra, con alcuni frequentatori della sua bottega in via Roma; alla sua dx Antonio Panico e Italo Santoro; alla sua sin. Donato Valli. (Foto Rocco Sperti)
Se n’è andato serenamente il 10 marzo - avrebbe compiuto 95anni a maggio - dopo una non lunga permanenza in ospedale, amorevolmente assistito dai famigliari e da quanti gli volevano bene.
Benché non avesse letto il De Senectute, l’elegante saggio filosofico che Cicerone compose sull’arte di invecchiare bene, il maestro sarto Rocco Longo ha ugualmente vissuto bene l’età più avanzata dell’esistenza. Ha amato la vita sino all’ultimo; lo capivi da come ti stringeva la mano sul lettino dell’ospedale o da come ti guardava o ti sussurrava le parole nel breve dialogo permesso da quella situazione. E in questo forte sentimento risiedeva la sua filosofia di vita derivata dalla saggezza distillata in tanti anni vissuti nell’attaccamento ai valori ricevuti, condivisi e trasmessi.
Tanto valida la sua filosofia, da non invidiare nulla a quella del pensatore e grande avvocato romano.Il segreto per vivere bene e a lungo - secondo Cicerone - è amare la vita con gioia anche durante la vecchiaia e, quanto più diminuisce il vigore fisico, tanto più occorre aumentare le attività dello spirito, senza mai abbassare l’interesse per ciò che ci circonda, persone e cose. Se poi a questo aggiungiamo la fede, allora comprendiamo ancor più come il maestro Rocco Longo, sia riuscitoa “rientrare serenamente nel porto dopo una lunga navigazione”- tanto per adoperare la metafora ciceroniana - e a insegnarci qualcosa anche nell’estremo momento dell’esistenza terrena.
Conoscevo maestro Rocco da sempre, ma mi sono avvicinato - diventandone in un certo senso amico - in occasione della raccolta di testimonianze per il mio libro Ebrei a Tricase-Portonel 2008. Da allora ho frequentato la sua bottega, in via Roma, e man mano il nostro rapporto è aumentato d’intensità. Mi piaceva ascoltarlo perché, pur alla mia età, avevo sempre da imparare qualcosa da lui. Le vicissitudini della vita lo avevano provato, anche duramente, ma aveva saputo reagire vedendo sempre il positivo; il suo temperamento benevolo e la sobrietà che protegge dagli eccessi gli avevano giovato consentendogli di raggiungere un’età veneranda. Il suo chiamarmi fiu era un segno di affetto che veniva fuori dal suo animo delicato e sempre disposto al bene,e io gliene sono grato. Amava intensamente i nipoti Pierfrancesco, Michele, Sara e Maria Luisa, che gli davano belle soddisfazioni; eppure non chiudeva,come molti fanno, gli affetti all’interno della famiglia. Spesso mi chiedeva del mio nipotino Sebastiano e desiderava vederlo. Quando glielo portavo e cominciavano tra loro a parlare, notavo la naturale tenerezza e lo vedevo veramente felice tanto da fargli esclamare “ve ne sciatiggià!”, nel momento in cui andavamo via.
L’ultimo grazie per maestro Rocco è per questa sua disponibilità all’accoglienza. Lo faccio -ne sono certo - a nome di tutti coloro che frequentavano la sua bottega: un vero “laboratorio intergenerazionale”, dove ci si incontrava con piacere per sapere cose di ieri ma anche per commentare fatti di oggi e immaginare prospettive per il futuro. A sostegno di questo “laboratorio” spontaneo,che purtroppo si è chiuso,non c’era nessun progetto; non c’erano obiettivi da raggiungere; non c’erano bilanci da approvare; non c’erano fondi da spendere; c’era però tanta amicizia in comune perché lì,si incontravano persone di età diversa, di cultura varia, con vissuti differenti, che tuttavia riuscivano a stare bene insieme e passare piacevolmente un po’ di tempo. Maestro Rocco amava il suo paese, Tricase; voleva essere informato e tutto ciò che ne ostacolava lo sviluppo o il progresso lo rendeva triste e preoccupato, specialmente per i giovani. Accoglieva tutti: mai ho sentito un lamento o un rimprovero verso un extracomunitario venditore porta a porta, anche quando accadeva che nella stessa serata se ne avvicendassero molti a breve distanza di tempo. Per loro aveva sempre una buona parola o un piccolo aiuto,anche con l’acquisto di qualcosa di superfluo, e in ogni caso sapeva riversare la sua esemplare umanità con un franco sorriso.
Grazie Maestro Rocco !
On.le Antonio Lia
Caro Direttore, il giornale che lei dirige ha riportato più volte il mio nome come candidato a Sindaco o Consigliere Comunale di Tricase, sono molto onorato che alcuni cittadini di Tricase hanno espresso interesse per la mia persona, questo mi lusinga ma voglio precisare che la mia attenzione per il risultato delle elezioni amministrative di questo paese amico mi interessa moltissimo per le cose che ho avuto la possibilità di esprimere in alcuni articoli sul suo giornale, perché sono fortemente convinto che Tricase deve ritornare ad essere il riferimento del Capo di Leuca e poi perché Tricase deve riguadagnare la sua dignità e identità come ho più volte avuto modo di scrivere.
So che quello che sto per dire mi creerà inimicizie ma mi sembra scorretto, per la storia di questo paese, che qualcuno pensi che Tricase sia terra di nessuno e chiunque, nel nome di un Partito o Movimento politico, possa venire a Tricase a fare razzia di voti approfittando delle amministrative per crearsi una nicchia dove attingere consenso per le sue ambizioni personali o del suo Movimento/Partito.
Direttore, in questo momento Tricase ha bisogno dell’unità di tutti i tricasini e di quelle persone che professano la loro amicizia per il paese. Il nostro è un territorio che ha bisogno di un paese guida che dia forza e concorra allo sviluppo economico e sociale di tutto il capo di Leuca. Noi tutti abbiamo il dovere di contribuire a far uscire la comunità dalla situazione di stasi che sta vivendo in questo momento. Sono convinto che per Tricase ci vuole un’Amministrazione che abbia il più ampio consenso, che venga fuori un’Amministrazione autorevole perché il momento è difficile e preoccupante.
Non le nascondo che ho letto con preoccupazione il Suo articolo sull’ultimo numero de “il Volantino” i dati relativi alle imprese nel 2016 sono preoccupanti.
Quei dati riportano che “Tricase si è distinta per il saldo negativo tra apertura e chiusura delle attività economiche presenti sul territorio comunale”. Il risultato di ben 24 unità imprenditoriali in meno in un solo anno è allarmante. Tricase deve trovare la forza e il modo di reagire e di saper mettere a frutto le grandi potenzialità che ha: dalla Cultura alla Scuola, dal Turismo al Commercio, dall’Agricoltura all’Artigianato. Potrei citare altri punti di forza che sono presenti a Tricase, così come potrei e farò, se lei mi darà spazio come ha sempre gentilmente fatto, per valutare quale tipo di sviluppo potrebbe avere Tricase se i Cittadini sapranno eleggere un’Amministrazione Comunale che abbia un forte programma credibile e fattibile, non una melassa elettorale per accontentare l’orecchio degli elettori, un programma che viene dal contributo di tutti e che in questo momento sappia ridare fiducia alla gente, nell’interesse della Città, dei Tricasini e di tutto il Capo di Leuca.
di Emilia Rossi Sono una tricasina di adozione e di questa cittadina bella, sana e ridente, ne ho amato tutto: dal marito fino all’ultimo neonato, tutti gentili, intelligenti, disponibili e con l’animo sensibile.
Ma oggi che delusione! Il “Volantino” di Tricase ha riportato –dopo articoli elogiativi per quei personaggi che fuori dal paese si sono realizzati e primeggiati- uno, poco edificante, articolo su una persona come Suor Margherita Bramato (che può suscitare solo pensieri alti) chiedendole attenzione per un banale e volgare problema: non lo specifico, mi vergognerei!
Io, che dopo un non breve, ma necessario soggiorno in “Betania” (mi ero rotto il femore e le conseguenti difficoltà data la mia non tenera età) avevo sentito il bisogno, il dovere di scrivere un articolo per far conoscere a tutti quale tesoro –parlo della Reverenda Suor Margherita Bramato- possedeva questa fortunata cittadina.
L’articolo fu pubblicato –per merito di un mio affine- sull’agenzia giornalistica “Zenit” del Vaticano che è pari all’Ansa.
Il primo a leggerlo fu il nostro Santo Padre Francesco. Leggerà anche questo “Volantino”?
Penserà che io sono una fan di parte o che io non ho capito che quella rubrica è dedicata alle barzellette ed agli indovinelli?
Comunque cara S. Margherita, continui nella Sua lodevole opera, pur pensando che … nemo profeta in Patria.
Grazie per il richiamo e Le chiedo scusa se l’abbiamo delusa; ma –mi creda- sappiamo quanto vale Suor Margherita;
ne apprezziamo le doti umane e professionali e lungi da noi ogni intenzione di mancarle di rispetto.
Alessandro Distante
di Mary Cortese L’indifferenza. Questa, sì mi sembra in definitiva la cosa di cui ho più paura. L’impermeabilità agli avvenimenti del mondo. Il restare uguali a sé stessi e non chiedersi dell’Altro da sé. Il guardare con diffidenza chi invece si schiera, si impegna, scalpita. E magari deriderlo. La volontà, al limite, di proteggere i propri piccoli, miseri confini, che siano quelli della propria casa, del proprio condominio, del proprio clan. Una volontà tanto miope quanto pericolosa, incapace di cogliere il nesso della propria esistenza in una rete di relazioni col mondo, succube della paura del diverso, e complice dei più grandi crimini.“Sui vostri monumenti alla Shoah non scrivete violenza, razzismo, dittatura e altre parole ovvie, scrivete 'indifferenza': perché nei giorni in cui ci rastrellarono, più che la violenza delle SS e dei loro aguzzini fascisti, furono le finestre socchiuse del quartiere, i silenzi di chi avrebbe potuto gridare anzi che origliare dalle porte, a ucciderci prima del campo di sterminio". Così Liliana Segre, una delle poche sopravvissute italiane ai campi di concentramento nazisti.
Questa paura dell’indifferenza, ricordo, fu una delle cose che mi facevano scalpitare quando dopo il liceo, scelsi di andare via. Ne percepivo tanta intorno a me e me ne sentivo schiacciata. Da più di vent’anni vivo nella Capitale e l’indifferenza nel frattempo ho scoperto essere il male dell’intero pianeta.
Intanto nel pugno chiuso stringo come uno scrigno inviolabile l’immagine del mio paese, e amo la strada che lì mi riporta. Perché non posso fare a meno di tornare a osservare il mondo da quell’angolo prezioso.
Leggo sempre quello che Alfredo De Giuseppe scrive, perché mi riconcilia con la mia terra. Non perché debba sempre essere assolutamente d’accordo con le sue opinioni, quanto perché traspare ogni volta la sua passione, la sua ostinazione, la sua strenua volontà di non lasciarsi sopraffare da tutto quello che lo sappiamo, gli renderebbe anche la vita più facile. Ma lui resta lì caparbio a guardarsi intorno: quello che gli accade accanto, per poi sollevare lo sguardo e provare a interpretare i cambiamenti del mondo. Sono spesso parole scomode: sfido chiunque a dire sempre esattamente quello che pensa dell’autorità, dei santi più venerati, del poeta locale più osannato (e misconosciuto), a dichiararsi agnostico nel Paese in cui si professa una fede che raramente si vive, in cui la laicità è una brutta parola da sotterrare con qualsivoglia ipocrita perbenismo. Sono parole che testimoniano una militanza mai sopita nella lotta per la difesa dell’ambiente, per la tutela del bene pubblico, per il sostegno dei diritti civili. Sono parole di denuncia: contro una cultura del clientelismo, della collusione con il malaffare, del nepotismo, contro le parole d’ordine populiste e xenofobe che egemonizzano il dibattito pubblico. Contro l’asservimento del territorio agli interessi economici di minoranze e contro la disinformazione che ci conserva, soprattutto a noi gente del Sud, sudditi.
Una denuncia che, lungi da istigare all’odio, nasce dall’amore per la propria terra, da una vivacità intellettuale che non si arrende, ma sceglie ogni giorno di aderire a una visione del mondo, conservare un’etica anche nell’affrontare i problemi dell’impresa, ricordare a tutti che si può crescere senza sacrificare altri pezzi di territorio, di mare, di bellezza. Tutto questo e molto altro, ho incontrato fra le pagine di “Anni di getto”, il libro di Alfredo che presenteremo domenica 19 Marzo nella Sala del Trono di Palazzo Gallone. “Scritti d’impulso spesso non corretti, articoli pubblicati e commenti inediti” dal 2010 al 2016. Frammenti che si uniscono per ricomporre la sensibilità dell’autore, quella che abbiamo conosciuto attraverso gli altri suoi libri e i suoi film, la sua predilezione per i margini, per la bellezza non conforme, per l’arte nascosta, per citare uno dei suoi lavori. Lui stesso lo definisce un modo per “mescolarsi, quasi avvinghiarsi, ancora di più nella realtà straordinaria di una comunità…cui aspiravo con empatia mista a disprezzo alla massima conoscenza interiore”.
È stato come rileggere gli ultimi anni di vita del mio angolo di mondo preferito, sorridere per ogni intervento impertinente - e ce ne sono!-scoprire cose a cui non avevo prestato attenzione, meravigliarmi sempre dell’irrefrenabile bisogno dell’autore di raccontare.
E qui ritorno al punto da cui avevo iniziato: l’indifferenza. Quello che leggo nel libro di Alfredo è l’esatto contrario. È partecipazione, desiderio di conoscere, informarsi, di non aderire a letture stereotipate e perché no, tradurre tutto ciò che cattura lo sguardo in bella scrittura e mai, proprio mai, dimenticare l’ironia. Questa predisposizione dell’animo che non può fare a meno di guardarsi intorno, di posizionarsi nel mondo, è proprio l’antidoto all’indifferenza. Passione sì ma soprattutto compassione: “lapiù importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera-scriveva Fëdor Dostoevskij- quella capacità, cioè, “di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione”.