Un dogma lezioso, vecchio e perdurante, ci impone di credere che tutto il mondo ruoti attorno all’asse del denaro, dipendendo in qualche maniera dal possesso (dal possedere, l’infinito del verbo rende l’idea più del sostantivo) di ricchezze e dal consumo incessante di cose. Si tratta, a ben vedere, di una semplificazione e di un pregiudizio tra i tanti propri dell’armamentario culturale europeo, ed è foriero di catastrofi sociali e ambientali, sebbene ritenuto intangibile come una religiosa verità con la quale far sempre, è il caso di dire, i conti.
Quando, nei secoli scorsi, occupammo senza pietà terre abitate da popoli senza banche e banconote confermammo a noi stessi la nostra superiorità razziale, immaginando che tutti gli altri, gli incivili, non fossero che ingenue bestiole da educare nel segno della croce e dei nostri inestinguibili valori monetari. In tal modo abbiamo fatto a pezzi intere civiltà, rubando a popoli raffinatissimi e a loro modo evoluti, segreti, ricchezze, bellezza e pietà: il caso degli Indiani d’America è l’emblema della violenza di cui è stato capace, per secoli, l’uomo bianco.
La storia delle iniquità non è mai terminata. La Germania, oggi così rigorosa, ricca e perfino ecologica, si era ridotta, poco più di un secolo fa, vale a dire al termine della Prima Guerra Mondiale, ad un ammasso di disperazione, poveri e carta moneta senza valore. Dalle ceneri di quella Germania prese corpo il delirio hitleriano. E se al termine della Seconda Guerra Mondiale, tra tavoli di trattativa e concertazioni monetarie, prese vita l’Europa che noi oggi conosciamo (un continente relativamente pacifico e stabile, pur non volendo dimenticare la tragedia dell’ex Jugoslavia), la nostra complessiva prosperità ha sempre poggiato sulle sabbie mobili di tre rilevantissimi difetti: disunità politica, eterogeneità antropologica (mai davvero armonizzata), consunzione ecologica.
A tal punto, economisti e banchieri d’Europa e del Mondo, veri padroni del vapore secco del Pianeta, non fanno che ribadire banalità e banalizzazioni, dichiarando implicitamente che il danaro, da mezzo che doveva essere, è diventato unico fine del nostro vivere. Non fosse che un uso smodato del denaro crea vera e propria dipendenza. In tal modo, senza nulla togliere alla fame, alla miseria e al degrado di mezzo pianeta, il denaro non ha fatto che accrescere degrado, miseria, fame e decadimento morale in tutto il pianeta sfiorato dalla Civiltà Occidentale.
Da quanti miliardi di anni esiste l’Universo? La Terra, da quanti milioni di anni gira intorno al suo asse? L’homo sapiens, da quante migliaia di anni calca il suolo terrestre? Si nasce, si vive, si muore: senza danaro, non grazie ad esso, non per suo tramite. Ci siamo evoluti, abbiamo abbandonato savane e caverne (di roccia o platoniche, poco cambia) e siamo diventati capaci di poesia, arte, scienza e scoperte. Non in forza del denaro, altra invenzione umana, ma grazie alla nostra umanità.
In un punto, lo ammetto, concordo ancora con la mistica cristiana: il danaro è sterco del demonio. Rende pazzi. Corrompe. Rende stupidi. Rende corruttibili. Rende mendaci. Rende violenti. Divide due contro tre: i padri contro i figli, le figlie contro le madri. In tutta evidenza, il denaro non è (quasi) mai la soluzione di un problema; sovente è il problema dei problemi.
Se tra qualche secolo umanità vi sarà ancora, dati i preoccupanti indici ambientali planetari, sono pronto a scommettere (non del danaro) che due grossi problemi saranno stati risolti: la dipendenza dal petrolio; la dipendenza dal denaro. Perché si può vivere senza petrolio (anzi si dovrà), assai presto; e si dovrà vivere senza danaro (anzi si potrà), ben felici di farlo.
All’origine, il denaro ha aiutato l’uomo in modo pratico: facendogli superare le scomodità del baratto. Non una capra in cambio di un sacco di sale; ma un’astrazione per dare valore stabile (per così dire) a capre e sale. Soprattutto, qualcosa da portarsi dietro, comodamente, da luogo a luogo, senza dover portar seco carovane di sale e di capre; qualcosa di cumulabile a profitto del proprio lavoro, non sempre onesto, e del proprio ingegnoso intraprendere.
CI sono state sempre tante monete quante culture e popoli; dunque, si è sempre posto il problema del cambio unito a quelli dell’unità di valore (inizialmente oro) e della fondamentale stabilità del mercato. L’economia, che non è affatto una scienza, come può esserlo la fisica, è però una convezione. E, si sa, le convenzioni mutano di segno. Tanto che, per proporre un paragone ardito solo in apparenza, se oggi uno psichiatra non giudicherebbe malattia quello che un suo collega avrebbe giudicato malattia un secolo fa; un economista potrebbe dire domani quel che non ha detto ieri. Dunque, occhio al parere degli economisti, e in qualche caso degli psichiatri.
Cosa vuole l’economia, oggi? Pareggio dei conti, produttività illimitata, contenimento dei costi, consumi indeterminati e indefiniti: tutto e il contrario, una follia in pieno stile spacciata per razionalità utilitaria. In mezzo a tale deserto di conti, i popoli assistono, così, sgomenti alla loro disfatta. Alla disfatta del loro sogno di coniugare prosperità e felicità (quelle umanamente possibili), pace e pane. Ecco perché, nel mio intimo, ho esultato del No che buona parte del popolo greco ha detto all’Europa contabile dei tecnici. Né voglio assecondare la tirata moralistica degli europeisti con attico su Campo de’ Fiori; insomma, di quelli ragionevoli perché comodi. Il no dei greci non è un no all’Europa Unita; tutto sommato, non è neppure un No all’Euro Moneta Unica. Il no dei greci è sovranità democratica, una testa e un voto, Agorà, civiltà di un popolo i cui antenati, se permettete la retorica volgarità, facevano filosofia quando al centro-nord del continente europeo (Germania odierna inclusa) si viveva ancora, seppur ammirevolmente, in capanne di fango.
Questo non esime chi attualmente governa la Grecia dalle sue responsabilità; e non assolve chi, in Grecia come in Italia, per decenni ha condotto le spese pubbliche in un regime di allegrezza sfrontata, di corruzione diffusa, di delirante ottimismo consumistico. Il punto, però, è un altro. Può una cura rivelarsi peggiore del male? Possiamo, per debellare una piaga, quella della spesa pubblica incontrollata, devastare popoli e futuro? O non dobbiamo, da un certo punto in avanti, ammettere che l’immensità di certi debiti è semplicemente (direi aritmeticamente) insolvibile?
Ho provato un sentimento di contrarietà nel vedere alcuni politici italiani di spicco (Vendola e Fassina tra gli altri) sfilare in Grecia nelle ore del voto, quasi la questione referendaria fosse, per loro tramite, una questione cruciale della sinistra italiana; di quella stessa sinistra ch’essi hanno contribuito a rendere vuota. Mi danno un po’ fastidio questi rivoluzionari in casa d’altri che vanno a brindare per i “successi” di politici dei quali non hanno mostrato di avere la metà del coraggio. Credo sarebbe stato più dignitoso, per tutti questi nostri “Che Guevara” con indennità parlamentare, restare in Italia e impostare un nuovo discorso politico intorno al futuro d’Europa.
Resta il fatto che il Popolo Greco, maiuscolo e sovrano, ha indicato un metodo all’intero continente: mostrando, con semplicità e chiarezza, che ci sono cose della vita sociale sulle quali è richiesto non tanto, non solo, l’intervento di esperti e tecnici di non sempre chiara scienza; ma è richiesta, invece, la capacità di autodeterminazione di tutti unita al coraggio di farsi carico di quelle domande che, dacché Mondo è Mondo, implicano sempre impegno individuale e soccorso sociale: è grazie a tali domande, e non per via del denaro, che dalle grotte siamo finiti sulla Luna; col danaro quale mezzo e non quale scopo della nostra poetica, fragile, irripetibile vita. Ringrazio la Grecia per la sua ennesima lezione.