di Giuseppe R. Panico Un tempo, non molto lontano, la strada verso Marina Serra era in terra battuta, più stretta, meno livellata e con un percorso leggermente diverso. Ben poche macchine e moto la percorrevano; erano più frequenti, all’alba e al tramonto, “traini”, biciclette e pedoni diretti o di ritorno dai campi. D’estate molte famiglie contadine usavano alloggiare in campagna in parche e affollate “paiare”, “lamie” o “suppinne” senza elettricità e arredate sovente, più che con letti e materassi, con “saccuni” riempiti di “ristuccia” (la paglia raccolta nei campi dopo la mietitura). Era l’era del tabacco, i campi erano verdi del suo fogliame, i “talari” pieni di foglie ad essiccare ed i ragazzi di campagna felici di recarsi al mare poco distante.

Quel giorno il papà era al lavoro altrove, sulla nuova litoranea verso Leuca, ove le continue esplosioni scuotevano la montagna, ne frantumavano la roccia e la strada lentamente avanzava. Si valorizzava la costa, le marine ed il turismo, il porticciolo era già fatto e la piscina “naturale” si sarebbe poi fatta.

Marco, il maggiore fra i molti fratelli, non ancora decenne, ebbe da sua madre un compito da grandi: recarsi in bicicletta in paese a comprare delle uova per pranzo. All’andata la strada un po’ impervia ed in salita ne rallentava la corsa, al ritorno la strada in discesa e la voglia di mare la accelerava. In quel tratto, ora dismesso, ma ancora ben visibile, che si inerpica su un lieve dosso per poi ridiscendere, Marco correva forte quando una “sacara” gli attraversò d’improvviso la strada.

Il grosso colubro fece rapido sfoggio della sua sinuosa e leopardina livrea e quindi scomparve fra i cespugli. Marco istintivamente sterzò, lo evitò, prese una buca, perse l’equilibrio, cadde battendo la testa, perse i sensi e lì rimase disteso sotto il sole e fra le uova tutte infrante. Un filo di sangue solcava ora il suo infantile viso abbronzato per poi, goccia dopo goccia, arrossare il terriccio. Passò del tempo poi si sentì scuotere. Confuso e contro sole, vide una figura di donna china su di lui.

Era anziana alta magra, vestita di scuro con uno scuro “maccarulo” in testa. “Ddiscete,vagnone, ddiscete” diceva, con voce alta ed accorata, reggendogli la testa. Marco si destò, mentre la ferita continuava a sanguinare. Non aveva con sé nulla per tamponarla, né nulla aveva quella solitaria contadina, se non una piccola e povera borsa. Ne aveva tratto il contenuto: una bottiglietta d’acqua ed un paio di frise, una era già per terra sfatta e rossa di sangue. Prese la seconda, ne ammorbidì un lato con alcune gocce d’acqua e la pose sulla ferita. Poi prese la mano di Marco e la spinse sulla fronte. “Tegnala stritta, tegnala cusì. Comu te sentì? A ddu abbiti?”.

Marco si sentiva già meglio; si sedette, il tampone funzionava, disse che abitava poco distante e che poteva continuare da solo. “Si ssicuru? Te ccumpagnu? “None nunna grazie, me sentu meiu, fazzu sulu”. Si alzò, ringraziò ancora… “grazie nunna”. Con l’altra mano prese la bicicletta danneggiata, guardò le uova infrante poi il ginocchio sbucciato e, dolorante e zoppicando, proseguì verso casa. Quel giorno non andò al mare. Sua madre, vedendolo e già preoccupata per il ritardo, gli corse incontro quasi gridando “Marcu cci tte successu? “Mamma...nna sacara” rispose Marco fra le lacrime e i singhiozzi di un pianto troppo a lungo represso.

La madre lo abbracciò, gli tolse la frisa ormai sfatta, gli curò la ferita, e poi, per quel giorno a pranzo, non più uova per tutti ma “paparussi e pummidori” rapidamente raccolti nel vicino orticello. Chiedeva intanto di quella contadina per poi recarsi a ringraziarla. Marco non la conosceva, non seppe dare altre indicazioni, mai più la incontrò, ma non dimenticò la povera borsa vuota e la poca acqua rimasta. Forse era tutto il suo nutrimento per quel giorno di lavoro nei campi.

Sono ormai quasi sessanta anni che Marco percorre sovente quella strada, ora asfaltata, senza più quel dosso, senza buche e senza sassi e con tante auto dirette verso il mare o le nuove candide villette. Forse la sacara, o le sue discendenti, vive lì ancora, pronta a uscire, al primo caldo sole di questa nuova primavera, e curiosare fra rovi e muri a secco, “paiare”, “lamie” o “suppinne” , in gran parte cadute o cadenti, fra terreni verdi solo di rovi ed erbacce, senza più tabacco né grano e nemmeno …”ristuccia”.

Passando in auto, Marco inconsciamente rallenta. Forse spera ancora di rivedere, se non la sacara, quella magra contadina, guardarla bene e senza il sole negli occhi, chiederle il nome e poi chiederle di quelle frise, premute sulla sua fronte e intrise nel suo sangue e poi ancora... del suo digiuno in quel giorno nei campi.

                                                                                                          

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