Aristotele considerava l’arte più vera del vero, in quanto elevava il singolo evento sul piano veritativo trasmutandolo in forma. Secondo tale chiave di lettura un’opera, come ad esempio Guernica di Picasso, cessa di rappresentare il singolo evento, un bombardamento nazista di un villaggio, per elevarsi in una forma universale, perciò nel quadro è l’orrore della guerra nella sua pura distruttività che si presenta davanti. Se l’arte quindi coglie un verosimile che è più autentico del vero, allora di Nicola Lagioia si può affermare che ha elevato la sua opera letteraria ad opera d’arte. Il suo ultimo romanzo, “La ferocia”, fresco vincitore del premio Strega, ci dice qualcosa di essenziale sulla nostra epoca, così come nel precedente romanzo, “Riportando tutto a casa”, ci aveva illuminato sugli anni ’80 cioè sulla genesi del mondo attuale. Gli anni ’80 furono gli anni del nuovo, illusorio, miracolo italiano, il vacuo edonismo reganiano contagia anche la Puglia e si prepara il deserto prossimo venturo. “La ferocia” rappresenta, con grande efficacia narrativa, la desertificazione dell’immaginario, della coscienza etica ed in generale dell’esistenza, in pieno compimento. Tutti i protagonisti sono in balia di eventi che li travolgono e li costringono a un agire disperato di cui finiscono irrimediabilmente per smarrire lo scopo. Tutti appaiono ricattatori e ricattati o comunque ricattabili, in un ginepraio di “favori” fatti e ricevuti che testimoniano il loro vuoto etico e contemporaneamente la loro funzionalità all’interno di un sistema che valorizza e si nutre dell’ambiguità morale e delle debolezze personali. Anche la ribellione dei figli, le nuove generazioni in cui non sembra riposta alcuna speranza, appare inquietante, anche loro sembrano contagiati dalla “peste desertificante” dei loro genitori, anche loro sono scaraventati in un vortice di risentimento distruttivo e autodistruttivo raccapricciante e senza via d’uscita. Se in “Riportando tutto a casa” la rivolta dei figli conservava ancora una volontà umana con barlumi di autonomia, ancora in grado di pensare una realtà alternativa, nell’ultimo romanzo l’epoca delle “passioni tristi” è giunta a compimento, il sistema vincente non ha più bisogno di mostrarsi ipocritamente “il migliore dei mondi possibili”, perché nell’immaginario collettivo si è ormai imposto come l’unico mondo possibile. Del resto, in quel grande equivoco rappresentato dal neoliberismo degli anni ’80, una feroce restaurazione spacciata per rivoluzione, uno dei principali simboli del conservatorismo di quegli anni, M.Thatcher, non aveva forse detto che un uomo vale quanto guadagna? È stata clamorosamente creduta e intere generazioni hanno cercato di valere qualcosa identificandosi nella ricchezza accumulata. Ai figli dei vincitori di questa assurda battaglia cosa resta? Se l’uomo vale quello che riesce a costruire in termini di ricchezza materiale, ai figli dei feroci vincitori che non hanno più niente da costruire dato che ci hanno pensato già i padri, cosa rimane? “Il deserto avanza”, scrisse Nietzsche , “guai a chi cela un deserto dentro di sé”. Heidegger ci avvisa che la desertificazione è peggiore della distruzione perché ogni distruzione presuppone una ricostruzione mentre la desertificazione è l’inaridimento di ogni fonte. Il deserto sembra la rappresentazione diagnostica della nostra epoca che ci da Lagioia. Ci proporrà anche qualche terapia? Ma a ben guardare la presa di coscienza della diagnosi non è essa stessa anche una forma di terapia?
di Fabrizio Perniola