di Giuseppe R. Panico

Nella storia e nelle campagne di Tricase vi sono (o vi erano ben più numerosi) tre arborei protagonisti che, ben più di altri, hanno inciso sulla nostra economia ed immagine.

Nel lontano passato, erano le querce vallonee.

Di quella dei “cento cavalieri”, spesso simbolo pubblico e privato della nostra incuria e disattenzione, si è spesso parlato, come anche della nostra “vocazione turistica” nel valorizzare ricchezze storiche e naturali.

Chissà se Palazzo Gallone vorrà accordarsi con i proprietari per ripulire quegli spazi, completare le opere interrotte e predisporre idonei servizi. O magari sarà qualche scuola, ove tanto si parla di ambiente e natura, a voler adottare quella quercia. Sulla costa vi erano tanti ulivi, anche secolari, ove la xylella fastidiosa sembrava lenta a diffondersi e progredire.

Forse il sapore di sale e quello di mare, così gradito a turisti e paesani, lo è meno per l’aggressivo batterio che sembra preferire l’entroterra.

Il crescente abbandono delle campagne ha reso poi gli ulivi facile preda degli incendi boschivi e l’importazione di enormi quantità di olio di oliva, un tempo la nostra ricchezza, ha reso meno competitivo l’olio nostrano.

Gli eccessivi vincoli ambientali, la burocrazia, le indecisioni politiche e la scarsa capacità di utilizzare proficuamente i fondi europei, continuano inoltre ad osteggiare un più ricco e moderno sviluppo turistico e nuovi insediamenti costieri. Confindustria Turismo aggiunge pure che, per investire in Puglia e dunque anche da noi, ci vuole proprio coraggio.

Il nostro tricasino modello di sviluppo poi, ancora privo di un credibile piano urbanistico-costiero e portuale, come anche di chiare e motivate intenzioni su quello che si vorrebbe fare, di certo non aiuta; se non per creare lavoro, almeno per darci speranze.

Ci mancava il tornado a buttare giù anche tanti ulivi e la propensione a piantarne di nuovi non sembra affatto diffusa, né molto incentivata. Il terzo protagonista è il pino marittimo che campeggia sullo stemma cittadino.

Di pini ne era piena la costa e la loro ombra attenuava l’estiva calura. Dal mare, al largo, era bello volgere lo sguardo verso terra e accarezzare con gli occhi quel vellutato manto verde, retto da alti fusti elevati al cielo ed ove lo starnazzare delle “ciole” dava voce al silenzio della natura.

Ma questa ha saputo dare una forza possente alla sua occasionale violenza, quasi a ricordarci che, pur vivendo noi in un territorio baciato dalla sorte, perché esente (o quasi) da terremoti, tsunami, alluvioni o altri disastri, che nella vita nulla è scontato.

Oggi le nostre due marine prive quasi di querce, con tanti ulivi abbattuti e moltissimi pini strappati alla terra ed alle rocce e rovinosamente caduti, sembrano come due affrante ragazze, un tempo belle, leggiadre e ben vestite di verde.

Quegli abiti sono stati loro strappati, poi denudate, ferite e violentate. Necessitano di tempo ed aiuto per riprendersi dai danni al corpo ed alla mente e non sempre si riesce. L’erba della ormai prossima primavera coprirà di verde le loro escoriazioni, ferite e antiche vergogne (edilizie). Alcune rimarranno aperte, con il rischio di infettarsi e infettare il territorio se proprietari e istituzioni saranno ancora inerti e demotivati.

Il tornado potrebbe invece dare stimolo e sprone verso un auspicabile “rinascimento”, all’insegna un nuovo “brand”, quello di una Tricase sulla costa e sul mare che sa reagire e ben curarsi per una estate in arrivo, pur con un sole poco ombreggiato per meno alberi, e con un mare che da sempre invita a “fare futuro”.

Ma l’idea del “rinascimento” in fondo non ci appartiene, come anche, da molti decenni, la voglia o capacità di sviluppo.

Chissà se il tornado, oltre a scompigliarci i capelli, ci ha rinnovato il pensiero.

Ma non solo quello dei rimborsi con bigliettoni mitici e milionari per coprire ferite vere o presunte e vergogne certe. Senza questi, senza gli alberi di fico, ormai radi pure loro e d’inverno senza foglie, senza le palme distrutte dal punteruolo rosso, non rimare che coprirle o strofinarle con i tanti fichi d’india.

Forse è il deserto che avanza, ma più quello umano che, senza concreti e rapidamente eseguibili piani per il “rinascimento” costiero e turistico, non può che riservarci un futuro da cactus.

“L’Italia deve correre” diceva in questi giorni il nostro premier Conte.

Ma per correre e non arrivare sempre ultimi, bisogna affidarsi a gambe allenate, teste sane e in grado di dar loro la giusta direzione e, soprattutto, avere meno spine politiche nei fianchi.

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