di Alfredo De Giuseppe La storia del Castello di Tutino, nel suo infinitesimo, può essere rappresentativa della Storia d’Italia. Specialmente del Sud. Costruito su precedenti insediamenti (forse esistenti fin dalla preistoria) fu pensato come roccaforte militare verso la fine del 1300. Risulta nel 1400 proprietà Gonzaga e poi Trane, la cui famiglia verso la fine del 1500, eliminando parte del fossato, edificò il Palazzo su due piani che doveva servire come residenza estiva del Barone. Fu questo il momento di massimo fulgore, in coincidenza con l’arte rinascimentale.

Nel secolo successivo fu ceduto ai Gallone, signori di Tricase ma residenti a Napoli, poi per eredità divenne proprietà degli Imperiale, che nei primi anni del 1900 lo cedettero alla famiglia Caputo. Questa lo usò come deposito e trasformazione di tabacco, di cui era divenuta concessionaria di Stato, per circa 50 anni, dal 1920 al 1973. Nel frattempo si consumavano vari attentati ai danni del Castello: verso la fine degli anni ’50 veniva concessa ad un privato la costruzione di una casa sul fossato lato sud, deturpandone irrimediabilmente immagine e utilizzo.

L’Enel ci piazzava intorno dei pali orrendi in ferro, la Telecom una cabina, l’acquedotto una fontanina, la facciata veniva invasa da fili di tutte le misure, l’accesso al fossato dalla piazza veniva occluso da un muro di un altro privato, all’interno venivano distrutti camini, porte e orpelli vari, inutili all’immagazzinamento del tabacco. A completamento del tutto venivano piantati lungo il recinto dei pini alpini degni di una piazza della Val Gardena e una serie di cartelli stradali, pubblicitari e di affissioni mortuarie. Insomma un trattamento riservato ad una specie di discarica, una cosa da nascondere, un rudere su cui pisciare in tranquillità insieme a ratti e gatti. Fino alla sua consunzione.

Poi un sussulto verso la metà degli anni ’80: il Comune di Tricase sotto la guida del sindaco Serrano acquista dalla famiglia Caputo, tramite un compromesso e ad un prezzo davvero conveniente, il Castello di Tutino, la zona detta “Donnamaria” e il boschetto prospiciente la stazione. Stranamente, dopo qualche anno, il Comune non riesce ad accendere un mutuo per completare l’acquisto, la famiglia Caputo restituisce l’acconto e si riprende tutti i beni.

Da allora sono passati alcuni decenni: niente si è mosso intorno al castello, tranne forse l’utilizzo di tanto in tanto di una benemerita associazione che pulisce ad ogni occasione il fossato, le erbacce sui muri e gli interni invasi dagli uccelli. Ora da questa storia si possono trarre tante conclusioni: la noncuranza pubblica e l’arroganza privata; i limiti della proprietà privata quando detiene un bene di interesse pubblico; il degrado dell’arredo urbano delle nostre città; la sottovalutazione, anche come ricaduta economica, dei nostri monumenti storici; la disdicevole sensazione che la Soprintendenza alle Belle Arti sovraintende soprattutto sugli stipendi dei propri funzionari.

Tutto ci sta e tutto si potrebbe commentare. Ma una cosa, una sola, ha ancora un significato di speranza: uno sparuto numero di cittadini, i residenti dell’antica Tutino, sentono quel posto come casa propria, forse nel Medioevo vi si rifugiavano, forse durante il Rinascimento partecipavano alle feste baronali, forse le nostre nonne vi hanno lavorato il tabacco per poche lire scambiate come liberazione dalla schiavitù domestica. Certo non demordono: quei pochi cittadini lottano da anni per la valorizzazione del castello, per la sistemazione complessiva dell’area, per la ristrutturazione a fini culturali, teatrali e, perché no, economici.

Quei cittadini rappresentano, con la loro voglia di bellezza, con la forza delle centenarie radici, l’Italia che resiste, la fiducia che qualcosa possa davvero cambiare in questo sfortunato Paese, baciato dalle arti, distrutto dalle furbizie.    

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