Tra qualche giorno saremo chiamati alle urne per un referendum, richiesto da nove regioni (poi ridottesi ad otto per la “defezione” dell’Abruzzo nel gennaio u.s.), abrogativo di una norma varata da questo Governo.E già da quest’incipit si intravede la “novità” rispetto al passato di questa consultazione referendaria.Primo, i fronti del “Si e del “No” non si sono coagulati intorno alle “tradizionali” separazioni tra “progressisti” e “conservatori”. Secondo, questo è un referendum richiesto non da dei cittadini, ma da Consigli regionali, afferenti a regioni nella maggioranza dei casi amministrate dai medesimi partiti di governo a livello nazionale. Insomma, da un lato, l’atteggiamento contrario, a livello locale, ad attività “nel proprio giardino” suscettibili da avere un qualche impatto ambientale (e mi dicano lor signori quale non lo è …) è pervasivamente bipartisan. Dall’altro, acquistano sempre più rilevanza politica, in Italia ma non solo, i divari tra le autonomie locali ed il governo centrale, a discapito di quelli tra “ricchi” e “poveri”, tra “capitalisti” e “proletari”, insomma prende piede una logica che si potrebbe definire “geograficamente corporativa”, e ciò in concomitanza con la fine delle “vacche grasse”: fatto questo, che, mutatis mutandis, ricalca, piuttosto inquietantemente, l’esplosione delle logiche localistiche nell’Unione sovietica degli anni ’80, in un contesto di stagnazione economica e di svanimento dell’effetto propulsivo, sull’attività economica, della pianificazione. Terzo, non si può certo sottacere il tormentato iter di indizione dei comizi elettorali. Originariamente, la proposta referendaria comprendeva inizialmente sei diversi quesiti, tutti, nel novembre 2015, giudicati legittimi dall’Ufficio centrale per il referendum. Ma il Governo ha modificato le norme in questione nel dicembre 2015, di modo che il detto Ufficio ha dovuto nuovamente pronunciarsi sulla legittimità dei sei quesiti, ammettendone solo uno. Alcuni fra i Consigli regionali promotori della consultazione hanno quindi sollevato unconflitto di attribuzione fra poteri dello Stato allo scopo di far riammettere due dei cinque quesiti respinti dall’Ufficio citato, ritenuto infine inammissibile per un mero vizio di forma. Quarto, in un primo momento, il comitato promotore del referendum e le opposizioni parlamentari avevano proposto che questo si tenesse lo stesso giorno delle elezioni amministrative, adducendo, invero a ragione, delle economie di spesa. Tuttavia, il Governoha optato per la divisione delle due consultazioni, ed ilPresidente della Repubblica ha avallato tale la scelta anche perché la legge prevedrebbe l'obbligatorietà dell’accorpamento solo in caso di elezioni di diversa natura, ma non nel caso di elezioni e referendum (ma comunque, è da rilevare, la legge non lo preclude …). Ma veniamo all’analisi della questione nel merito. La norma che sarebbe abrogata se vincessero validamente (ovvero previo raggiungimento del quorum) i “Si” inerisce solo i giacimenti off-shore, di petrolio ovvero gas naturale, che si trovano entro le dodici miglia nautiche dalla costa e per i quali è stata già rilasciata una concessione entro il 31.12.2013: in particolare, sancisce la possibilità di prorogare la relativa concessione oltre il quarantesimo anno di attività, in unica soluzione, e fino all’esaurimento del giacimento. L’esito del referendum non ha quindi formalmente alcun effetto sul rilascio né: (a) di nuove concessioni per zone ubicate entro le citate miglia, che sono interdette all’attività estrattiva e continueranno ad esserlo a prescindere dall’esito del referendum; (b) di nuove concessioni per zone situate oltre le suddette miglia, che continuerà ad essere permesso a condizioni invariate; (c) di proroghe, oltre il quarantesimo anno di rilascio, alle concessioni esistenti ed inerenti aree ubicate oltre le dette miglia, che continuerà ad essere permesso fino all’esaurimento del giacimento. In più, se la norma in questione fosse abrogata, tornerebbe in auge il comma 8 dell’art. 9 della L. 9/91, che prevede la possibilità di prorogare la concessione di sfruttamento di qualunque giacimento di petrolio ovvero gas naturale off-shore (quindi anche quello ubicato entro le citate miglia) oltre il quarantesimo anno di rilascio, di cinque anni in cinque anni, fino all’esaurimento del giacimento. Insomma, se vincessero validamente i “Si”, sarebbe, quantomeno formalmente, una ben modesta vittoria: il quadro normativo inerente la coltivazione di giacimenti di petrolio ovvero gas naturale off-shore non subirebbe alcuna variazione, se non che, per quanto riguarda i soli giacimenti ubicati all’interno della fascia delle citate miglia, dopo quarant’anni dal rilascio della relativa concessione saranno possibili, sempre fino all’esaurimento del giacimento, reiterate proroghe quinquennali invece di un un’unica proroga. Certo, non può sottacersi che questo referendum è “caricato” di significati che vanno ben oltre le conseguenze dell’eventuale abrogazione della norma oggetto dello scrutinio popolare, al punto tale da essere divenuto una sorta di plebiscito sulle politiche ambientale ed energetica del Governo, anzi sull’intera attività del Governo. Ma è evidente che chi, per esempio, non è insoddisfatto dell’attività del Governo al punto tale da volerlo mandare a casa, ma è a favore dell’abrogazione della norma oggetto di referendum, oppure, all’opposto, chi ne ha abbastanza di quest’esecutivo ma è contro quest’abrogazione, si trova in estremo disagio; per non parlare poi di quelli (e forse sono tanti) che vorrebbero innanzitutto che si ponesse mano, una volta per tutte, alla normativa inerente lo sfruttamento delle risorse naturali in Italia, che definire caotica è dire poco. Per completare il quadro (che, se non fosse tragico, sarebbe comico, o viceversa …) nessuno sa quali saranno i reali effetti della vittoria di uno o dell’altro schieramento, ulteriore rispetto a quello, come ho detto marginale se non risibile, della conferma ovvero dell’abrogazione della norma in questione: infatti, alla fine saranno “gli eletti” a tirare le somme, e, considerati i precedenti, non c’è certo alcuna garanzia che lo faranno in modo tale da rispettare la volontà popolare. Proprio l’oggettiva “strumentalizzazione” di questo referendum ne costituisce, a mio avviso, l’anomalia maggiore. Essa dimostra ancora una volta che tutta la materia degli strumenti di democrazia diretta, di cui il referendum abrogativo è la preponderante espressione attualmente prevista nel nostro ordinamento, deve essere profondamente rivista. Questi strumenti devono essere sostanzialmente potenziati, anche e soprattutto nel senso di prevedere la consultazione del popolo nella fase, che definirei “positiva”, di elaborazione delle norme. I cittadini, sicuramente più informati ed acculturati rispetto al periodi in cui la Costituzione fu redatta, sentono a ragione di poter contribuire in modo diretto all’elaborazione delle leggi e delle politiche, e sono stanchi di firmare “deleghe in bianco” ai politici. D’altra parte, l’innovazione tecnologica permette di massimizzare l’entità la qualità la frequenza di questo contributo da parte dei cittadini, a costi peraltro progressivamente decrescenti.Ma questi strumenti devono essere anche affinati, in modo tale che il cittadino che partecipa direttamente al processo democratico possa ragionevolmente confidare che il suo parere avrà una qualche influenza, e non si senta “tirato per la giacchetta” di qua o di là, ovvero, per dirla tutta, strumentalizzato da chi alla fine decide, e nel farlo si prende innanzitutto cura di conservare tutto il suo potere “di classe”.