di Alessandro DISTANTE

E’ il secondo immigrato che, quest’anno, ha trovato la morte a Tricase. Dopo l’annegamento ad Aprile di Abdoulay, il quindicenne della Costa d’Avorio morto a Punta Cannone, nella serata tra sabato e domenica scorsi è toccato ad un altro immigrato, Uddin, questa volta proveniente dal Bangladesh.

Se per il giovane ivoriano sono state fatali le acque del mare, per il giovane bengalese è stata fatale la strada.

Due episodi che, al di là delle colpe e delle responsabilità che dovessero essere accertate, hanno a che fare, drammaticamente, con la questione attualissima e drammaticamente centrale, sia a livello nazionale che mondiale: l’immigrazione.

Negli Stati Uniti d’America -secondo tutti gli analisti- la vittoria di Trump è stata favorita dal fallimento della politica di Biden sugli immigrati e dalle promesse, molto discutibili, di Trump, fino a quella di deportare i 12 milioni di immigrati irregolari. Gli Stati più ai confini con il Messico, questa volta, hanno votato repubblicano a conferma della centralità della questione; e fa riflettere che, ad esprimersi per la chiusura delle frontiere, siano gli immigrati già regolarizzati.

In Italia non mancano dichiarazioni, anche da parte di autorevoli esponenti del Governo, di chiaro stampo xenofobo, per cui, dietro al dibattito sulla regolamentazione dei flussi di stranieri, prende corpo una spesso mal celata “caccia allo straniero”, colpito da una presunzione di criminalità, visto come potenziale spacciatore, stupratore, violento, e, insieme ai suoi compagni, vero e proprio invasore.

Scorrono in televisione le significative immagini che giungono dall’Albania dove pochi immigrati vengono scortati da un dispiegamento di forze e di militari degno, appunto, dei peggiori gangster.

Gli episodi luttuosi accaduti a Tricase, a casa nostra, hanno suscitato grande dolore nell’intera comunità. Ed è questo l’aspetto positivo che deve essere valorizzato. Sono prova di una cultura che vede nell’accoglienza un valore, come le nostre popolazioni dimostrarono in occasione degli sbarchi dall’Albania nei primi anni Novanta.

La questione posta dalla morte dei due giovani non è quella di regolamentare i flussi, ma di interrogarsi sulla “qualità” dell’accoglienza.

Non basta dare cibo e un alloggio, ma occorre porsi la domanda su quale integrazione e su quale inclusione.

Il giovane ivoriano non conosceva le insidie del mare ed è annegato; il giovane bengalese, da poco giunto in Italia, non conosceva i pericoli della strada ed è stato travolto da un’auto.

Certo, il mare nasconde insidie e richiede esperienza e viaggiare in bici o su un monopattino di sera su una strada non illuminata è quanto mai inopportuno in mancanza di illuminazione, ma la questione è un’altra: quali nozioni e quali informazioni abbiamo trasferito a chi arriva da noi?

La domanda -mi rendo conto- pretende troppo, eppure non possiamo evitarla.

Se è da apprezzare e ringraziare chi accoglie, si impone una attenzione diversa se si vuole fare integrazione e se si vuole evitare di dover rattristarsi per la fine tragica di due giovani che, dopo aver superato imprese disumane per giungere in Italia e fuggire da prospettive di morte, poi, la morte la trovano qui, da noi, nella “terra sognata”.

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