di Annarita Marasco
Carlo Ciardo
Osservatorio Giustizia Amministrativa COA Lecce
Nei giorni scorsi il Nuovo Quotidiano di Puglia ha riservato un efficace focus sullo scioglimento per infiltrazioni mafiose di alcuni Comuni salentini, un argomento che pone rilevanti questioni giuridiche (e non solo), in merito alle quali queste pagine hanno già ospitato, alcuni mesi addietro, un dibattito di alto profilo. Il recente approfondimento giornalistico offre degli spunti per un ulteriore momento di riflessione.
Da un’indagine svolta dalla Commissione Antimafia nella XVII legislatura è emerso che dal 1991 (anno in cui fu emanata la prima norma in materia, l’art. 15bis del D.L. n. 164/1991 poi trasfuso, con parziali modifiche, nell’attuale art. 143 del TUEL), sino al febbraio 2018, si sono registrati 298 scioglimenti, con punte in Campania (35%), Calabria (34%), Sicilia (24%) e Puglia (11%).
Affinché si giunga all’adozione di questa “misura straordinaria per affrontare un’emergenza di carattere straordinario” (Corte Costituzionale n. 103/1993) è necessario che risulti compromessa la libera determinazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi ed il buon andamento o l'imparzialità delle amministrazioni, ovvero che le forme di condizionamento arrechino grave e perdurante pregiudizio per la sicurezza pubblica.
La riflessione a questo punto si biforca. Per un verso, verte sulla disamina giurisdizionale dei provvedimenti di scioglimento, e per altro verso, concerne l’iter procedimentale previsto dall’art. 143 del TUEL.
Sotto il primo profilo, la giustizia amministrativa ha ripetutamente statuito che la valutazione per l’accertamento dell’esistenza di collegamenti o condizionamenti mafiosi debba assumere uno sguardo d’insieme e non possa essere parcellizzata o atomistica. Davanti alla (ampia) discrezionalità di cui gode l’Amministrazione nella attività di discernimento ed accertamento, il Giudice Amministrativo si arresta sull’uscio, svolgendo un controllo nei limiti dell’adeguatezza, della ragionevolezza, della congruità e della proporzionalità dei provvedimenti di scioglimento adottati.
In ragione di ciò non deve sorprendere quanto emerso dalle cronache giudiziarie, cioè lo iato tra le pronunce della giurisdizione amministrativa che hanno confermato i provvedimenti di scioglimento ed alcune sentenza del giudice penale che hanno assolto gli amministratori coinvolti. Questa divaricazione è il frutto di parametri e criteri valutativi differenti, tanto è vero che in più circostanze il Giudice Amministrativo ha affermato che per procedere allo scioglimento di un Ente Locale non è necessaria la presenza di profili di responsabilità penale, atteso che ci si muove su un piano preventivo e non repressivo.
Ma ciò è sufficiente a spiegare tutto? Prevenzione e repressione possono imboccare strade così divergenti senza correre il rischio di far viaggiare contromano la ragionevolezza del sistema? Sul lato della giustizia amministrativa v’è da evidenziare che nel corso degli ultimi anni il TAR Lazio ed il Consiglio di Stato hanno fatto registrare a volte approcci differenti, come dimostra la relazione del Presidente del Tribunale Amministrativo laziale del 2019: “Le pronunce rese dal giudice di appello manifestano una decisa tendenza a valutare in maniera estremamente rigorosa ogni elemento indiziario utile a dimostrare l’esistenza di situazioni di condizionamento e di ingerenza nella gestione dell’ente… esiste una discrezionalità lata dell’amministrazione o invece esiste solo la discrezionalità, intesa come capacità di scegliere la via migliore per realizzare l’interesse pubblico indicato dalla legge e nell’osservanza delle regole? Forse ci si dovrebbe orientare verso la seconda alternativa”. Questo autorevole intervento – invero rimasto una eco nella valle della discrezionalità - non può però eclissare l’altra faccia della riflessione, legata alla legislazione.
La normativa vigente non prevede alcuna forma di partecipazione da parte degli Enti interessati, in quanto nell’intera sequenza procedimentale non c’è alcun interstizio che consenta la produzione di controdeduzioni da parte degli Enti oggetto di indagine, e quindi non vi è alcun onere per l’Amministrazione procedente di motivare i propri provvedimenti facendosi carico delle eventuali osservazioni.
In verità dall’inizio della legislatura sono state depositate 3 proposte di legge alla Camera e una al Senato (nella precedente legislatura erano addirittura 9, mai discusse). Le proposte presentate in seno alla Camera dei Deputati sono state riunite (abbinate alla C.1630), sono state oggetto di iniziale dibattito e di alcune audizioni informali, ed oggi è in corso una interlocuzione tra le forze politiche per cercare di giungere ad un testo unificato, come comunicato dal relatore (On. D’Ettore) nella seduta della Commissione Affari Costituzionali del 17 marzo scorso. Al netto di soluzioni quantomai fantasiose presenti in alcune proposte legislative (vedasi la creazione di un Consiglio dei Cittadini con il compito di coadiuvare la commissione d’indagine), sono apprezzabili gli apporti emendativi che ad esempio consentono agli amministratori coinvolti di depositare osservazioni nell’ambito del procedimento amministrativo oppure che prevedono l’integrazione del Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica con un esponente dell’Amministrazione oggetto di indagine al fine di creare un contraddittorio procedimentale.
Purtroppo il corto respiro di cui gode la legislatura non fa presagire una imminente calendarizzazione (ammesso che si arrivi ad un testo condiviso), sebbene la vita degli Enti Locali sia un caposaldo per il vivere democratico, specie in un momento nel quale proprio dalle autonomie locali passa la gestione dei fondi del PNRR e, quindi, il nostro futuro.