di Luca Antonio Esposito

Un titolo provocante, che ci porta a riflettere su come la pandemia ha cambiato la nostra visione del mondo e dei rapporti umani. Siamo ormai solo dei numeri?
Ogni giorno veniamo bombardati da statistiche, valutazioni economiche e sanitarie e dati di ogni sorta perdendo in qualche modo la consapevolezza che quei numeri rappresentano persone che hanno perso il lavoro, che si ammalano di Covid, che muoiono ogni giorno.
È interessante notare come i bollettini dei contagi e, ancor più, quelli dei morti non sorprendano e non destino più tanto clamore. Ci si abitua a tutto. O forse no? Siamo tutti più soli e, anzi, tutti abbiamo paura dell’altro. Le mascherine nascondono i volti e creano diffidenza. Gli isolamenti forzati, i cosiddetti “lockdown”, hanno compromesso molti rapporti con gli stessi familiari.

Gli studenti hanno vissuto una “rivoluzione” del concetto di lezione e con loro tutto il mondo scolastico di ogni ordine e grado è stato coinvolto da questo grande cambiamento, che ha portato a una nuova “quotidianità scolastica”.
La verità è che siamo cambiati, e forse non ne siamo del tutto consapevoli.
Siamo una società che ha paura, che ha sperimentato di poter subire innumerevoli privazioni in nome di una sicurezza sanitaria. Abbiamo assaporato la fragilità della vita umana davanti ad un nemico invisibile.

Ma tirando le somme.. Siamo migliorati, stiamo migliorando oppure no?
Si vede e si percepisce solitudine. Solitudine e amarezza nelle persone. Persone cambiate dal Covid nel modo di vedere le cose e nel modo di vivere i rapporti.
I social network hanno permesso forme di contatto e di rapporti umani anche nei momenti peggiori. Tutti si sono dovuti inesorabilmente adeguare a cambiare le loro abitudini e a ripensarle in nome di un nuovo modo di vivere, certamente più distaccato ma che permette di sentirsi ancora vicini. Lontani ma vicini. Un ossimoro quanto mai azzeccato in un contesto di bilanciamento tra la necessità di limitare il contagio e il bisogno di umanità.

Una grande lezione è che, forse, si è compreso che non siamo in grado di vivere isolati. Abituati alla nostra libertà, talmente assuefatti, che per apprezzare anche una piccola corsetta all’aria aperta, abbiamo dovuto privarcene.
Sarebbe interessante dedicare attenzione ad elaborare un indice di felicità e stress pre e post Covid. Certamente non è la prima volta che si assiste ad una crisi di tipo pandemico nel mondo, cito a tal proposito la peste di Atene, l’influenza spagnola, l’influenza asiatica, l’influenza di Hong Kong, l’HIV, la SARS, l’influenza suina e l’ebola.
In realtà, se ci pensiamo ad ormai un anno e mezzo di distanza, ci siamo abituati con alti e bassi a situazioni che ritenevamo impossibili da sopportare. Se nel 2019 ci avessero chiesto “Sei pronto a privarti di uscire per i prossimi due anni?”

Penso che chiunque ci avrebbe riso su ritenendo l’interrogativo alquanto assurdo e surreale. Basta pensare che nessuno, fin dallo scoppio della pandemia, ha mai voluto veramente prendere coscienza del fatto che per uscirne sarebbero stati necessari anni. Adesso tutto sembra paradossalmente normale.
Sorrido e provo a pensare come un bambino può concepire questo periodo, come se lo spiegherà. Riterrà normale tutte queste regole o considererà questo solo un frangente?
Infine, ci sono le vittime del covid, i contagiati, i numeri, i bollettini. Ormai parliamo genericamente di morti dimenticando che dietro ci sono nomi, persone e famiglie. Siamo vaccinati, positivi, negativi, ricoverati e morti.

Siamo numeri che finiscono per alimentare statistiche, giustificare operazioni, allentamenti e restrizioni.
Farebbe bene ricordare che, oltre ai dati, dietro ci sono persone.
In aggiunta, un fenomeno al quale bisognerebbe prestare la giusta attenzione è che oltre alle vittime in termini di vite umane, si ritrovano persone distrutte psicologicamente.

Le questioni, non di poco conto, a cui forse verrà dedicato spazio nei prossimi mesi sono gli strascichi psicologici e sociali del Covid. Le questioni sociali e psicologiche sono anch’esse importanti. Siamo destabilizzati da quella che si è ormai definita Infodemia.

Un termine quanto mai calzante per definire la circolazione di informazioni, anzi oserei dire il bombardamento di notizie poco accurate e di vasta portata che spesso hanno combinato allarmismo e superficiale ottimismo.

Siamo tutti in qualche modo provati dal Covid-19, il lockdown ha portato innumerevoli situazioni psicologicamente turbanti: pensiamo a chi è stato costretto a vivere condizioni di solitudine forzata, chi a contatto obbligato con i propri cari e chi (oserei dire tutti) è stato (ed è) costretto a interrompere relazioni sociali di ogni tipo.
La pandemia ha in qualche modo posto un freno alla vita frenetica che vivevamo.

Ci ha messo in contatto diretto con la nostra intimità. Non è semplice quantificare adesso i danni psicologici del Covid, ma se ci fermiamo a riflettere non sono pochi e, probabilmente, tra qualche anno si tireranno le somme anche di questi.
La solitudine può essere un momento di riflessione ma anche un modo per far uscire fragilità nascoste. Tra tutte, chiudo sottolineando come una delle parti più orrende a cui il virus ha in qualche modo abituato è la morte in solitudine.

In verità, non si è mai abituati alla morte di nessuno, il tutto è anche peggiorato dal non poter vedere e salutare i propri cari. Soffermarci sui danni irreversibili e l’impatto psicologico è di vitale importanza per riflettere che tutto quello che stiamo vivendo, anche con l'entusiasmo delle riaperture, non verrà cancellato né dal vaccino e né dalla fine stessa della pandemia.

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