di Luigi Piccinni

Il Direttore del Volantino mi telefonava martedì scorso, intorno alle 13.45, per chiedermi di “scrivere di Don Gino” sicuro che io avessi già notizia della scomparsa del Vescovo di Molfetta;
Io non ne avevo avuto notizia.
Rimasi evidentemente sconvolto e accettai l’invito del Direttore, sia pure a fatica, perché la confusione e la costernazione mi avevano fatto preda. Immantinente, per superare l’impatto dell’emozione, feci ricorso all’immagine di Don Gino già in cielo, in compagnia della schiera dei Santi tra i quali primeggiavano i Santi Cosma e Damiano protettori del Suo paese natale, Depressa.
Mi viene subito fatto di dire a tutti noi -che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di condividere con Lui la comunità di appartenenza- come Gesù alla folla in agitazione presso la casa del Capo della Sinagoga la cui figlia era morta: “...andiamo via...” perché, appena saremo andati via, Gesù gli prenderà la mano e se lo porterà con sé.
Mi vien fatto di pensare che in una cultura contraddittoria come la nostra, la Chiesa del Risorto rimanga un dispositivo di senso, una cittadella di speranza costruita ai margini della disperazione; la morte chiede rispetto e silenzio, tanto quanto il misterioso prodigio della vita e l’altrettanto misterioso prodigio della trasformazione di un corpo mortale in immortale, sebbene il nostro sguardo sia oscurato dal dubbio e dalla fragilità, che oggi non ci consentono, ahimè, di leggere l’evento umanamente tragico con il metro dell’immortalità dell’anima.
E Sua Eccellenza è per noi immortale, nella misura in cui continuerà ad essere nostro compagno di viaggio.
Appena consacrato Vescovo e destinato alla Diocesi di Molfetta, già terra promessa di “Tonino Bello”, volle incontrare la comunità che gli aveva dato i natali e fu a Depressa, nella piazza Castello, che la comunità lo accolse: sembrava un bambino al primo giorno di scuola, gli occhi lucidi intrisi di commozione autentica, lo sguardo preda della meraviglia, dell’incredulità che accompagna l’uomo quando l’evento di cui è protagonista è di dimensioni quasi soprannaturali; Egli si guardava intorno, fissando lo sguardo sulla comunità che lo omaggiava, gli chiedeva di pregare per i propri familiari e lo implorava che non volesse giammai abbandonarla.
Una Diocesi così impegnativa poteva tenerlo a lungo lontano, ma almeno che trovasse il tempo di tornarvi. Poi i discorsi istituzionali, ai quali non sembrava assegnare particolare importanza, il ringraziamento, laddove le sue parole, i suoi gesti, furono ispirati a quella che costituiva la sua dote inimitabile, l’umiltà; e l’umiltà Sua Eccellenza portava con Sé e Gli si modellava addosso come un abito sartoriale. Mentre parlava si commuoveva e la commozione toccò il culmine quando ricordò colui a cui per primo Egli confidò la vocazione, il mai dimenticato Arciprete Don Luigi Erriquez.
Il ricordo dei genitori: qui il suo dire toccò le vette dell’elegia, perché riuscì, con la potenza del privilegio divino, a penetrare la sensibilità della comunità e a farle prendere consapevolezza di essere una comunità privilegiata.
Era come se la comunità vivesse la sensazione che, quando la carestia avesse imperversato su tutta la terra, sarebbero stati aperti per lei i depositi del grano. Si soffermò sulla memoria dei suoi genitori, che lo accudirono con l’esempio, lo portarono per mano forgiandolo nell’umiltà e con l’insegnamento dei valori, non certamente intriso di sermoni, bensì di esempi di umiltà e di semplicità di vita; e mentre Egli li ricordava, i suoi familiari lo guardavano con fierezza e con la pacatezza che da sempre li ha caratterizzati.
Non mi voglio qui soffermare sulla storia del suo percorso pastorale, peraltro a tutti ben noto; Qui voglio invece soffermarmi sui “soggiorni” di Sua Eccellenza nella sua Depressa: vi soggiornava non appena i gravosi impegni della diocesi glielo consentivano; dimorava nella casa paterna di via Vittorio Veneto che i fratelli provvedevano a manutenere.
Al mattino alle ore 7.30 celebrava la Santa Messa nella Chiesa Matrice, che lo vide chierichetto; Lo vedevo percorrere, e d’estate e d’inverno, il breve tratto di strada che separa via Veneto dalla Chiesa, con incedere umilissimo e lieve.
Quando avevo notizia della sua permanenza in Depressa, raggiungevo la Chiesa per partecipare alla messa da lui celebrata quasi sempre alla presenza silenziosa e costante di poche persone anziane, tra cui mia madre, e ciò che esaudiva le mie aspettative di rigenerazione ed acquietava le mie angosce quotidiane era ascoltare le sue brevi ma intense riflessioni che comunque svolgeva sia pure in giorni feriali e l’incedere soave, sommesso, ma puntuale e sostanziale del suo dire, erano incenso profumato di cui portavo l’odore per tutto il dì.
Alla fine della messa lo andavo a salutare in sacrestia; Sua Eccellenza mi invitava a sedere e conversavamo; mi chiedeva della mia mamma, dei miei figli, mi chiedeva dell’andare della comunità, mi confidava delle fatiche quotidiane dell’Apostolato in una diocesi importante che gli impedivano ahimè di essere a Depressa più frequentemente.
Il suo dire, il suo osservare, il suo meditare ad alta voce erano pur sempre intrisi di un velo di tristezza, di preoccupazione per i compiti quotidiani cui l’Apostolato lo chiamava.
Ma era la festa dei SS Cosma e Damiano che, a settembre di ogni anno, gli consentiva di manifestare compiutamente il suo profondo, immodificabile essere di Depressa. Percorreva a piedi, durante la processione dei Santi, le vie del paese e tornava evidentemente bambino; quando la processione si snodava per le più antiche contrade del paese, gli stavo piacevolmente vicino e registravo i momenti di gioia infantile, laddove Egli posava lo sguardo sull’uscio delle case di via Tagliamento dove la porta spalancata gli consentiva di scorgere la pia donna che la occupava con lo scialle sul capo mentre pregava, i lumini accesi sul marciapiedi, le piante a corredo dello stesso; era evidentemente immerso in un girone del Paradiso dantesco; Ahimè le forze dinamiche della vita, l’inconoscibilità apparente dell’animo umano, la capacità di riconoscerle, costituivano per me in quel momento estrema conquista, sia pure momentanea, della saggezza.
È proprio vero: quando si sia pesato il sole sopra una bilancia, si siano misurati i passi che portano alla luna, disegnata la mappa dei sette cieli stella per stella, restiamo sempre noi. E Sua Eccellenza, in quei momenti, restava sé stesso. Poi il passaggio per piazza Castello, con le luminarie accese: lì, in quella cornice, contenente il mistero della vita che è la semplicità, Don Gino non era il Vescovo, era il chierichetto di Don Luigi Erriquez ed era perciò che posava lo sguardo sulla dimora storica che dall’Arciprete Erriquez fu abitata. Infine il sagrato della Matrice laddove, con le statue dei Santi alle spalle, pronunciava il discorso di saluto e con la comunità elevava la preghiera.
La banda sanciva la gioia, mentre Sua Eccellenza benediceva.
Accadde che una anno, non ricordo quale, il giorno dopo la festa, lo incontrassi in piazza Castello; ripartiva per Molfetta, si fermò a salutarmi, scese dall’auto, diede uno sguardo alla piazza, mi disse:“Spero di tornare presto”.
Ecco: è qui il patrimonio di bellezza, di amore che Sua Eccellenza lascia a Depressa e perciò Depressa è privilegiata nell’essere oggetto eterno del suo amore. Dante descrive l’animo dell’uomo che viene dalla mano di Dio, piangendo e ridendo come un bambino e anche Cristo vide che l’anima di ognuno doveva essere a guisa di fanciulla che, ridendo e piangendo, pargoleggia.
Sua Eccellenza comprendeva che la vita è cangiante, fluida, attiva e che accettare qualsiasi forma di stereotipo in essa voleva dire la morte.
Ecco perché sostituiva gli stereotipi con l’umiltà.
D’altronde, quando era a Depressa, era come se non ci fosse, ma per la comunità c’era e la comunità avvertiva la sua presenza lieve, il suo soggiorno in silenzio ma operoso e ne riceveva, quasi inavvertitamente, alimento per tenere sempre accesa la lampada dell’antica fede.
Ai familiari, ai quali sono vicino insieme alla comunità dico: la tragedia non vi deve sconvolgere, e con Seneca:“Ai grandi spiriti non è mai cara una lunga dimora nel corpo, essi sono impazienti di uscirne, non riescono a sopportare le strettoie, avvezzi come sono ad innalzarsi al cielo per spaziarvi e governare dall’alto le vicende umane”.
Siate consapevoli che la comunità intera guarderà a voi come lo scrigno cui “Don Gino” ha riposto i suoi tesori; custoditeli come custodi privilegiati.

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