di Ilaria Altavilla
Gran Gala per Graziano

“Cari pugliesi: nonostante treni, caldo e orde di partecipanti, ci siamo davvero difesi a dovere”: scrive così Graziano, su Facebook, annunciando il suo terzo posto al prestigioso concorso letterario nazionale Bukowski, scalando la bellezza di 699 partecipanti e raccogliendo il consenso e la premiazione dalla traduttrice ufficiale di Bukowski Italia, Simona Viciani, insieme alla docente, saggista e scrittrice, Rosa Galli Pellegrini e al giornalista e scrittore Michele Nardini.
Ventiquattro anni, tricasino, Graziano Gala, sale sul podio con il suo racconto inedito “Sentir messa”, che nasce proprio a Tricase, come lui stesso ci racconta, e che porta il nostro paese sotto i riflettori di una gara tanto ambita. Ecco la nostra intervista.
1) Cosa significa essere classificati al terzo posto in un concorso nazionale così importante? E che esperienza è stata il Bukowski’s day?
È un onore anzitutto poter partecipare ad una manifestazione del genere. Quando ho scoperto di essere tra i finalisti ho già provato una grande soddisfazione. Potete immaginare quanta ne possa dare un terzo posto. La cerimonia di premiazione è stata difficile. Avevo paura, non sentivo più le mani, e nonostante i numerosi partecipanti, pur consapevole della difficoltà della gara, non volevo tornare a casa a mani vuote, perché in cuor mio sapevo, o, almeno, ritenevo davvero importante che un pugliese riuscisse ad arrivare sui gradini del podio. La Puglia, il Salento, è una fucina di idee, talenti, arte: io credo molto nella nostra generazione di giovani, so che se ci impegniamo davvero possiamo far spiccare il volo alla nostra terra.
2) Come nasce il racconto?
Nasce durante una messa,una di quelle che avvengono nel basso Capo. Mi sono distratto e ho iniziato ad osservare una serie di cose che accadevano intorno. Naturalmente, come accade quando si scrive, a queste reali si aggiungono invenzioni, nuovi colori, tante riflessioni, e creazioni e ricerche di sensazioni.
Siamo in una delle nostre chiese, quelle in cui noi tutti possiamo “sentir messa” proprio come il nostro protagonista. Come questi, durante la celebrazione potrà capitarci di distrarci e di prestare attenzione alle cose che avvengono intorno a noi. Egli, a guardare bene, si rende conto che anche gli altri sono distratti, quasi tutti. Quello che racconta potrebbe essere la descrizione esatta di quello che succede intorno ad una messa: bambini che si inventano i modi più impensabili per sfuggire alla noia, contadini che pensano al raccolto, vedove che si portano in chiesa gli stessi problemi che avevano a casa. Ci sono una serie di desideri, possibilità, idee che si sviluppano nella mente del protagonista e degli astanti, ma rimangono solo idee. A condurre il gioco è solo chi questa messa la sta celebrando, ovvero il parroco.
3) I tuoi racconti sono sempre una fotografia della realtà, che prende spesso spunto dalla quotidianità salentina, per tirare fuori poi il succo della vita, le cose davvero importanti. Qual è il messaggio di questo racconto?
Quello che il protagonista esprime, soprattutto nelle battute finali, in cui si rende conto che i condizionali rappresentano in fondo una faccenda abbastanza triste, è la prima presa di coscienza da parte sua di una realtà che non vuole più essere accettata. Non è dato a sapersi se egli prenderà parte alla processione imposta dal prete ai fedeli, quindi il racconto è una presa di coscienza di qualcosa che non piace, che non va più bene, è il primo momento per imprimere il cambiamento.
Non a caso chi fa la “rivoluzione” nel racconto è un bambino, due giovani universitari e una suora missionaria di Bangkok. Gli autoctoni continuano a sopportare.
La messa è una metafora: sono persone esterne o ancora troppo giovani che, non essendo ancora assuefatte, riescono a rendersi conto della voglia di cambiare e di prendere in mano la propria vita. Gli altri probabilmente sono i più infelici, ma si accontentano di mascherare perché l’abitudine è una strada ben più facile e sicura del cammino impervio del cambiamento.
Le possibilità, le fantasie, i desideri, che nutriamo dovranno sempre scontrarsi con la realtà dei fatti: ma siamo noi a decidere se uscirne vincitori o vinti.
4) Quanto conta nella tua scrittura il Salento?
Questa scatola, in cui opero, è fondamentale. Ha particolarità e situazioni irripetibili, che non si riscontrerebbero altrove. Io non saprei quantificare la presenza di questa terra, delle persone, delle abitudine, di tutto ciò che è Tricase, Capo, Salento per noi che siamo nati qui e che vediamo questo microcosmo che fa innamorare il resto del mondo con occhi diversi, occhi con cui nessun altro a parte noi potrà mai vedere. Tutto quello che so è che questa presenza è costante. Se non fossi nato qui non sarei lo stesso. Buona parte delle cose che vedo e che racconto sono una costante della realtà tricasina e, in modo più ampio, del Capo. Le persone sono genuine, quei contadini di cui scrivo hanno una certa quotidianità, momenti ben precisi che si scandiscono nel corso della giornata. Sanno prendersi il tempo necessario per ogni cosa … non è già questa una grande rivoluzione, al giorno d’oggi? Io osservo tutto questo, sono affascinato.
5) Tu studi lontano da qui, e sei a Tricase pochi mesi all’anno, e nonostante questo Tricase è una costante. Che cosa conservi di questo paese?
Il ricordo di alcune persone molto importanti e di alcuni posti molto cari. Serena Jazzetti, Romeo Erminio, Virginia Peluso; e poi conservo il ricordo della stazione, che prima mi sembrava immensa e spaventosa e ora invece è una via di fuga e di collegamento con le altre realtà.
6) E da lettore invece, quali sono i tuoi punti di riferimento?
I miei anni da giovane lettore sono stati segnati soprattutto da opere di Stefano Benni e di Céline, e ne avverto fortemente l’influenza anche da scrittore. Il mio preferito in assoluto però è Cosimo Argentina, uno scrittore tarantino e trapiantato in Lombardia, anche lui con qualche “problema di radici”. A volte, infatti, per capire meglio le cose, fa bene allontanarsi. E poi tornare.

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